Dopo l’annuncio della premier Meloni – fatto nelle Marche, regione al voto – dell’ampliamento al Centro della Zes Unica (Zona Economica Speciale), che già comprende anche Abruzzo e Molise, oltre a tutto il Mezzogiorno, in Umbria, regione a cui si estendono i benefici fiscali e di semplificazione, si è aperto un surreale dibattito politico a suon di comunicati stampa e post social.
Destra e sinistra, da un lato rivendicano il provvedimento.
Il centrodestra non solo perché è stato varato dal Governo Meloni, ma perché la procedura per richiedere l’ingresso nella nuova Zes Unica, creata il primo gennaio 2024, era stata avviata dall’amministrazione Tesei.
Il centrosinistra, con la presidente Proietti, per averlo sollecitato e, fa trapelare, per aver scongiurato il rischio che i benefici non fossero garantiti a tutto il territorio regionale umbro.
Parallelamente, però, si è aperto il dibattito sulle cause del declino economico. Per il quale si attribuiscono, reciprocamente, colpe. Andando avanti o indietro nel tempo in cerca dell’anno in cui fissare l’inizio del declino a seconda dell’amministrazione regionale del momento.
Intanto, improvvisamente – in barba agli analisti che lo segnalano da almeno 15 anni – ci si è accorti che l’Umbria, insieme a gran parte del Centro – si salva solo la Toscana e il Lazio, che però gode anche di quell’economia indotta dall’essere il centro amministrativo-burocratico del Paese – è scivolata al Sud. Una “svista” non da poco, per chi, a vario titolo, si occupa di politica e di amministrazione della cosa pubblica…
Perché non è che il Governo, con la scelta di ampliare la ZES, abbia “certificato” il declino economico dell’Umbria. Quello lo certificano, e da molti anni – se non con qualche sussulto dato dal valore aggiunto del settore delle costruzioni legato alle varie ricostruzioni post sisma – gli Enti di rilevazione, Istat in testa.
Tra i quali compaiono quelli che in Europa hanno classificato l’Umbria tra le Regioni “in transizione”, status a metà di chi, pur avendo un livello di sviluppo economico inferiore alla media europea, ha ancora un Pil (Prodotto Interno Lordo) compreso tra il 75% e il 100% della media Ue. Indicatori accertati nei sette anni della programmazione 2014-2020, cosa che ha poi consentito all’Umbria (insieme alle Marche e all’Abruzzo) di ricevere finanziamenti aggiuntivi nella programmazione 2021-2027, quella attuale, proprio in quanto regioni “in transizione”. Un riconoscimento, quindi, cercato a cavallo del passaggio di consegne tra le amministrazioni regionali di centrosinistra e centrodestra, perché consente di accedere a fondi aggiuntivi. A fronte di numeri sullo stato dell’economia che, comunque, non si possono cancellare.
E non è un “male” di ieri. Basti pensare che andando indietro 20 anni prima del Covid, risulta – fonte Istat – un andamento del Pil pro capite umbro peggiore solo a quello della Valle d’Aosta. Con un calo medio dello 0,74% annuo, passando da circa 24 miliardi di euro nel 2000 a 20 miliardi nel 2020.
Scriveva l’AUR, appena un anno fa: “Tra il 2007 e il 2022 il Pil pro capite dell’Umbria, una misura del prodotto medio dei residenti, è diminuito in termini reali di ben 12,4 punti percentuali. Nello stesso periodo, al contrario, rimaneva sostanzialmente stabile a livello nazionale e cresceva di 7,5 punti nelle regioni europee più simili all’Umbria. Questi dati certificano il declino assoluto e relativo dell’economia umbra”.
Andando ancora più indietro, nel 1995 il Pil umbro era dell’1% inferiore al dato medio nazionale, mentre nel 2017 il divario è salito al 12,5%.
L’Umbria negli anni Duemila, come rileva un’altra indagine dell’AUR, fino al 2020 ha subito più pesantemente le due crisi finanziarie (quella dei mutui subprime e quella dei mutui residenziali statunitensi) che hanno preceduto quella del Covid.
Elementi di fronte ai quali – ed oggi sembra avvenire qualcosa di simile, ad esempio sulla strutturazione del mercato dell’automotive seguita dalle scelte Ue sulla transizione ecologica – le politiche regionali (ma addirittura quelle nazionali) hanno mostrato di aver ben poche leve di contrasto. O di stimolo, legate essenzialmente agli incentivi economici.
Perché quella umbra, con poche eccellenti eccezioni, è un’economia in gran parte legata al comparto delle costruzioni(che ha però un andamento prociclico), ai fondi pubblici e alla subfornitura nella produzione di beni e servizi. Quindi ancorata alla disponibilità di risorse pubbliche o alla “salute” di altre economie che le fanno da traino. E per questo spesso subisce più pesantemente gli scossoni che arrivano da crisi globali o comunque di mercati di riferimento, nonostante un buon livello di diversificazione della propria produzione.
Quegli incentivi che ora, insieme ad una certa semplificazione delle procedure burocratiche, potranno arrivare dall’inserimento dell’Umbria nella ZES. Teoricamente a tutte le tipologie di impresa. Purché investano in beni strumentali e con un adeguato piano occupazionale, per nuovi insediamenti, miglioramento o riconversione di quelli esistenti. I benefici, come si legge nel provvedimento varato dal Governo, si applicano “ai progetti inerenti alle attività economiche ovvero all’insediamento di attività industriali, produttive e logistiche da realizzarsi all’interno dei territori delle regioni Marche ed Umbria, non soggetti a segnalazione certificata di inizio attività, ovvero in relazione ai quali non è previsto il rilascio di titolo abilitativo”.
Dunque, l’ingresso nella ZES può essere un’opportunità per attrarre investimenti. Per realizzare nuovi insediamenti produttivi o riconvertire quelli dismessi o in crisi (si veda alla ex Merloni).
La cosa, però, non appare così semplice. Soprattutto per l’Umbria, che sconta una arretratezza nelle infrastrutture (viarie, ma non solo), che potrebbero rendere non conveniente produrre qui, nonostante le agevolazioni. Si pensi a quanto avvenuto emblematicamente a Spoleto, dove l’inserimento nell’Obiettivo 2 non bastò a convincere imprenditori ad aprire industrie ed a restare.
C’è poi da considerare che, proprio perché la ZES Unica ormai è estesa a mezza Italia, in assenza di una Cabina di coordinamento che funzioni si rischia di aprire una competitività tra territori che, se non opportunamente gestita, anziché essere virtuosa potrebbe finire per scoraggiare investimenti serie ed aprire le porte ai “lanzichenecchi” a caccia di tesori per poi ripartire verso altre terre da saccheggiare.
Tra gli elementi di competitività, oltre al sistema infrastrutturale ed alla disponibilità di personale qualificato, c’è il livello della tassazione. Entra nella ZES l’Umbria che ha appena aumentato le tasse sui lavoratori dipendenti (e sui pensionati, che comunque a livello di macroeconomia territoriale contano almeno come consumatori) e, dal prossimo anno, l’Irap sulle imprese. Forse perché non ci si è resi conto, appunto, di dove fossero scivolati livello economico e Pil pro capite.
Perché, una cosa appare evidente, anche guardando a quanto avvenuto in questi anni nelle regioni del Meridione: l’inserimento nella ZES, da solo, non basta a convincere investitori, che hanno oggi molte opportunità di agevolazioni, in mezza Italia e in molte zone d’Europa.