Per chi avesse ancora dei dubbi sul fatto che i grandi classici fanno riempire i teatri oltre ogni tentazione legata alla originalità forzata di alcune proposte mainstream, bastava fare un salto al Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti ieri, 15 settembre per il debutto ufficiale nella 77^ stagione del Lirico Sperimentale di Spoleto della Turandot di Giacomo Puccini.
Un teatro dove si respirava “l’alito brulicante della vita”, come scriveva il poeta Dino Campana.
Con in più l’agitazione consueta di controlli e verifiche all’ingresso per la presenza in teatro dell’Amabasciatore d’Israele presso la Santa Sede, sua Eccellenza Raphael Schutz. Una bella novità e segno di attenzione per il Lirico.
Alessio Pizzech è un bravissimo regista. Sa osare quando è il caso e tuttavia rimane un ottimo “educatore”, una guida sicura soprattutto per i giovani cantanti dello Sperimentale.
Poi c’è anche il Pizzech della Turandot andata in scena ieri sera.
Sicuri che certe scelte di regia, unite agli allestimenti del prode Andrea Stanisci, in questa edizione, siano qualcosa che artisticamente va anche oltre le intenzioni dei due protagonisti, per non abbandonarci alle sole sensazioni, ci siamo tuffati ottimisti nelle note di regia offerte ai giornalisti in cartella stampa.
Ed in effetti, ragionando ex-post, una certa parte di ciò che è andato in scena è assimilabile all’idea di regia esposta da Pizzech. “Lo spettacolo sarà sempre in bilico tra visionarietà e incubo, tra sogno e inconscio che urla…”, spiega il regista che aggiunge poi su Turandot personaggio, “Una infanzia che definirei alterata dalla crudeltà dell’universo bambino”.
Ma come spesso accade, il primo impatto in teatro richiama alla mente ciò che gli occhi hanno già visto ed hanno trasformato magari in ricordi sempre vivi ed animati. Pizzech ci spiega che i personaggi di Turandot hanno necessità di compiere un viaggio iniziatico, un contatto con i loro mostri e incubi interiori. E a noi semplici osservatori pieni di ricordi non resta che notare la decisa somiglianza del primo atto con la follia del campo paramilitare nella giungla di Apocalypse Now in cui si compie la definitiva pazzia del Colonello Kurtz. Teste infilate nelle picche come trofeo e monito e un popolaccio sdrucito e macchiato di sangue, ormai dannato, che si agita e misura coltellate a chiunque passi vicino a loro, in nome e per conto di una principessa dannata quanto misteriosa rinchiusa nella “…fredda stanza” e incline a giochi enigmistici sanguinolenti. “L’orrore” di Kurtz.
Una Pechino che non è mai più come nell’incipit del libretto dell’opera scritto da Adami e Simoni “A Pechino al tempo delle favole…”.
Nell’edizione spoletina, inoltre, sembra che l’argomento principe su cui far convergere l’attenzione del pubblico sia il destino dell’opera pucciniana rispetto a quelli scritti da Franco Alfano e Luciano Berio autori del famoso finale incompiuto, dovuto alla morte improvvisa di Puccini e senza il quale l’opera sarebbe monca.
Quella di Turandot secondo il parere di molti, è la musica più bella e matura, probabilmente, scritta da Giacomo Puccini. Immenso il passaggio musicale della processione per Liù morta “ombra dolente non farci del male, ombra sdegnosa perdona, perdona”, l’ultimo appunto scritto dall’autore in persona prima della sua prematura morte.
Come è noto l’opera, su spinta di Arturo Toscanini e di Antonio figlio di Giacomo Puccini fu completata in un primo momento da un finale scritto da Franco Alfano a cui seguì a grande distanza di tempo, quello del 2001 scritto questa volta da Luciano Berio, decisamente il più interessante. All’argomento dedica una decina di pagine il Condirettore Artistico del Lirico, Enrico Girardi proprio nel Libretto di sala.
Ma non è questo busillis a creare le condizioni dell’orrore di molti gesti che Pizzech decide di trasformare in fatti molto contemporanei e sicuramente poco fiabeschi. “Un disegno fortemente simbolico ed evocativo che restituisca alle fiabe la capacità di parlarci sempre” aggiunge il regista.
E la scelta di spogliare (come sempre un po per necessità organizzative, ma in questo caso molto utile alla causa pulp) la scena in cui ci si muove, rende macroscopici dal punto di vista dell’osservatore-spettatore alcuni dettagli del ragionamento di Pizzech rinnovando ancora una volta i ricordi. I costumi e le parrucche del coro dei bambini sono da film Horror-distopico come i bambini del Villaggio dei dannati ( 1960) mentre l’ascia del boia e le movenze armoniche quasi coreografiche prima della decapitazione del principe persiano, somigliano tanto all’episodio pulp della Casa dalle foglie Blu in Kill Bill di Tarantino.
Ping Pong e Pang, veri protagonisti dell’apertura del secondo atto pucciniano, diventano dei soldatacci, veri e propri birri, che si muovono sulla scena delle decapitazioni muniti di pistole e inclini ai cazzotti, come gli sbandati di Arancia meccanica, una via di mezzo tra attenti ed esperti killer dotati di scarpetta e guanti alla CSI, quando ripuliscono il sangue dei misfatti della glaciale Turandot o sognanti e nostalgici “quei bravi ragazzi”, quando intonano la stupenda aria “Ho una casa nell’Honan con il suo laghetto blu tutto cinto di bambù…e son qui a dissipare la mia vita”. Se non fossero in tre sarebbero quasi identici a Jules e Vincent di Pulp Fiction.
E su tutto questo impera parallela la stupenda musica di Puccini che sembra raccontare una storia molto diversa.
Anche quando si entra a forza già dal secondo atto in quella che appare come la stanza di un ospedale psichiatrico, o forse un collegio di quelli governati con terrore, in cui Turandot è quasi sempre chiusa in una gabbia di ferro, come quella delle bestie feroci al circo. e sulla quale si arrampica nei momenti di concitazione dell’incontro con Calaf.
Il celebre “Nessun dorma” cantato nella stanza sanitaria appena alzati da un letto-branda assume una dimensione quasi obbligata da far dire all’osservatore “per forza non si dorme…”.
Insomma, finale di Berio o no, c’è qualcosa che fa pensare a due Turandot che si svolgono contemporaneamente sullo stesso palcoscenico. Il che non è un male assoluto, anzi. Ma obbliga a uno sforzo massimo di attenzione del pubblico, quello più edotto oltretutto. Immaginiamo lo stupore di chi non è condizionato invece dai ricordi. In fondo tutto questo è il rischio di quando si scava troppo a fondo nei personaggi. Magari si finisce con l’idea che possano esistere davvero in quel momento.
Il M° Carlo Palleschi sa il fatto suo e dirige energicamente l’O.T.Li. S. e il Coro del Lirico ottenendo un effetto molto deciso, dove i passaggi di insieme hanno una potenza espressiva che indubbiamente si fa sentire.
Un delizia assoluta il Piccolo Coro del Lirico Sperimentale diretto dal M° Mauro Presazzi.
Del cast dei cantanti, ci prendiamo la libertà di dire che nella serata di ieri due voci Liù–Alessia Merepeza e Turandot– Suada Gjergji hanno avuto il loro momento di massima espressione. Entrambi molto caratterizzate e tecnicamente sicure, hanno mostrato lati dei personaggi interpretati molto ben calati vocalmente nella partitura di Puccini ed una presenza scenica di grande coraggio (la Turandot-Gjergji che canta passaggi impervi arrampicata sulla gabbia è una vera “cattiveria”).
E, visto che ormai abbiamo una certa età, ci prendiamo anche il lusso dire chi ci ha reso la serata felice, ovvero Ping–Davide Peroni, Pong–Oronzo D’Urso e Pang–Roberto Manuel Zangari. Complice una drammaturgia molto indovinata di Pizzech, i tre giovani vincitori di Concorso ci sono sembrati in una forma strepitosa vocale e recitativa.
Come sempre un applauso allo sforzo creativo di Andrea Stanisci-scenografie, Eva Bruno-luci, Clelia De Angelis-costumi e alla pazienza (immaginiamo) di Lisa Nava-aiuto regista.
Repliche questa sera, 16 settembre alle 20,30 e domani, 17 settembre nella classica edizione pomeridiana delle 17,00.
Lo spettacolo andrà dalla prossima settimana in tourneè regionale a Perugia, Foligno, Città di Castello, Todi, e Terni.
Consigliamo di affrettarsi perchè le due repliche di Spoleto sono quasi al sold out.