Quando Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi, registi del Macbeth, spettacolo andato in scena a Spoleto per la 78a Stagione del Teatro Lirico Sperimentale, ci hanno raccontato in una breve intervista di come la città e il suo territorio avessero influenzato in maniera quasi spirituale, evocativa, la costruzione dell’opera verdiana “disegnata” per il Lirico, non ci avevano detto tutto della loro ispirazione “animica” per un Macbeth davvero nuovo.
Tuttavia un indizio significativo ci è stato suggerito quando Luigi Di Gangi ha citato come fondamento della formazione teatrale sua e di Giacomazzi il nome di Jerzy Grotowski. Il celebre fondatore del Teatro Povero, all’interno della compagnia “Laboratorium” nata a Breslavia nel 1965.
Spoleto non è digiuna di una simile esperienza teatrale. Ricordiamo personalmente uno dei primi Festival (2010) sotto la guida del compianto Giorgio Ferrara, quando nel programma festivaliero, il CUT (Centro Universitario Teatrale di Perugia) mise in scena “Battiti d’ali notturno”, spettacolo definito come “esperienza psiconautica”, sotto la chiara influenza grotowskiana. Per l’occasione Ferrara fece arrivare a sostegno dell’ardimentoso genere teatrale niente meno che Ludwik Flaszen, pupillo dello stesso Grotowski, di cui fu allievo prima e poi testimone in seguito.
E per chiarire meglio la faccenda, è solo l’attore l’unico punto di riferimento del Teatro Povero prima e della Psiconautica poi. E sui di lui ricade anche la speranza che “non facendosi sgozzare” riesca a trasmettere la sua esperienza come via da percorrere anche nella vita profana e materiale di tutti i giorni.
Il lettore non si faccia il sangue amaro nel leggere questo ricordo/pistolotto, perchè mai indicazione fu più utile per capire il Macbeth andato in scena in 3 repliche questo ultimo weekend al Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti.
Come ultimamente siamo soliti fare, non intendiamo scrivere una parola sulla trama dell’Opera, in termini musicali o sul libretto di Francesco Maria Piave e Andrea Maffei. Siamo giornalisti di campagna, come è noto, e rischieremmo di scrivere qualcosa, che nella migliore delle ipotesi è già conosciuta da secoli. Non ci sostituiremo incautamente a Google.
Preferiamo raccontare ciò che abbiamo visto e ciò che questo ci ha provocato a livello di sensazioni, istinto e sentimento.
Appena si apre il sipario dopo le prime note dell’overture verdiana… il tuffo al cuore. Il palcoscenico vuoto e completamente nudo. A terra quelle che si riveleranno essere quinte velate, compostamente arrotolate e le loro funi di sollevamento tese, come una sorta di foresta antica ed essenziale. La sensazione psiconautica è esattamente un misto di imbarazzo e di compartecipazione emotiva, quasi che il pubblico si trovi in realtà nel lato opposto a quello dell’osservazione. la platea/palcoscenico, mentre il palcoscenico/platea si deve ancora riempire di coloro che solo per questa occasione sono narratori di una vicenda umana sanguinolenta e di sete di potere. La quotidianità insomma.
A chi scrive, avendo vissuto quel palco nudo per alcuni anni della propria giovinezza, prima che il Festival ogni anno lo riempisse di arte e spettacolo, la memoria gioca il classico colpo gobbo e la commozione arriva dritta alla gola.
Tutto quello che si è visto dopo al Teatro Nuovo è stato frutto di un grande e profondo lavoro sui cantanti e sui componenti del coro. Non una sedia, un oggetto di scena che non fosse il pugnale con il quale si compiono i delitti e men che meno elementi scenici solidi. Tutto è frutto del movimento attoriale studiato su misura dai registi e dal percorso musicale verdiano, assolutamente preciso e non derogabile.
Il lusso di questo povertà quasi ostentata come un diritto, sono state il gioco di luci della sempre più brava Eva Bruno ed i costumi della vulcanica Clelia De Angelis che hanno trasferito tutto e tutti in una sorta di Pianeta Arrakis (Dune 1984, il celebre film di fantascienza), in cui l’abbondanza di pelle e morbida stoffa dei protagonisti contrastava con l’aridità assoluta di un pianeta devastato da maxi-vermoni. E poi dice che uno non ve l’aveva detto! La quotidianità appunto.
Di Gangi e Giacomazzi, invertono i ruoli di ogni cosa che passa sotto le loro mani e riescono a mettere in discussione ogni ruolo precostituito. Quando si fa necessaria in scena una “caldara”, o meglio, un pentolone enorme in cui le streghe vaticinatrici stanno bollendo una pozione fatta persino di un “dito d’un pargolo strozzato nel nascere…” o di un “labbro d’un tartaro…”, i due non ci pensano un secondo a trasformare il golfo mistico (la buca orchestrale) in un golfo dell’Ade, stile pentolaccia, dove i professori d’Orchestra della della Calamani si trasformano in diavolacci tentarelli. Merito anche di un Verdi particolarmente ispirato nelle arie delle streghe.
Nel palcoscenico/platea non si sta fermi un solo momento, ed anche quando il vuoto d’anime è necessario, ci pensano le quinte di tessuto a muoversi per raccontare qualcosa, testimoni di odori, umori e sudori, polveri secolari.
Nessuna modernità pelosa e nemmanco contemporaneità viziosa. Solo un potente viaggio psiconautico nei panni di chi forse un tempo siamo stati o abbiamo conosciuto. Anche se nel tempo non abbiamo imparato qualcosa ma anzi ci siamo dimenticato proprio tutto.
Di Gangi e Giacomazzi provano allora, grazie alla stupenda musica di Giuseppe Verdi a invertire di nuovo i ruoli. Accendono le luci a teatro, in platea, nei palchi e mettono il coro dei Profughi scozzesi sul boccascena, vestiti da comuni borghesi, a cantare una struggente “Patria oppressa…”, mentre poco appresso fa il suo ingresso in platea l’eroe MacDuff con il sodale Malcolm, e rivolto al pubblico canta “O figli, O figli miei! Da quel tiranno tutti uccisi voi foste…”. Di nuovo la quotidianità!
Se per la prima volta nella storia del Lirico Sperimentale di Spoleto si è dato corso alla messa in scena del Macbeth, le ragioni sono solo due e decisamente profonde e importanti. La prima è che il condirettore Artistico, Michelangelo Zurletti aveva espresso il grande desiderio di vedere l’Opera verdiana rappresentata almeno una volta nel programma del Lirico. La seconda è che nonostante la sfida proibitiva per la conosciuta difficoltà esecutiva per cantanti (non dimentichiamoci che si tratta di giovani appena affacciatisi alla ribalta del canto lirico) ed orchestra, il Lirico Sperimentale è maturo per produzioni decisamente più impegnative come appunto il Macbeth. Dopo 78 anni si poteva fare.
Orchestra Calamani impagabile, condotta dall’instancabile Carlo Palleschi che si trova ad avere a che fare con una sterminata congerie di colori contrastanti, con una nuova concezione del declamato e nuovi processi compositivi con arditi disegni melodici e innervature ritmiche e fraseggi accentuati. Coro del Lirico, guidato dal M° Mauro Presazzi, perfetto.
Cast (recita del 22 settembre) con alcune lussuosità sorprendenti come Banco– Nicolò Lauteri, MacDuff–Francesco Doto, e Lady Macbeth–Viktoriia Balan, tutti lanciati verso una promettente carriera.
Conferme spettacolari come Malcolm–Oronzo D’urso e Macbeth–Luca Bruno, quest’ultimo splendido Rigoletto nell’edizione del Lirico del 2020 con la regia della compianta Maria Rosaria Omaggio.
Applausi convinti anche per Chiara Latini–Dama di Lady Macbeth, Amedeo Testerini-domestico e I^ apparizione, Marco Guarini–medico e sicario, Alessio Neri–araldo, Klara Luznik–II^ apparizione, Andrea Marino–Fleanzio e III^ apparizione, Valentino Pagliei-Duncano, Giulia Tizi–Ecate. Assistente alla regia, Livia Lanno.
Ci prendiamo la libertà in chiusura di citare almeno due famosi Macbeth che ci stanno nella testa e nel cuore: quello del 5 giugno del 1958 con la regia di Luchino Visconti e con il quale si aprì la prima edizione del Festival dei Due Mondi di Spoleto. E poi quello del 1983 (e rieditato nel 1996) di Carmelo Bene che scrisse a proposito del suo lavoro “…segna la fine della scrittura scenica e spalanca l’avvento della macchina attoriale, sollecitato dall’esperienza elettronica ereditata dalla fase cinematografica e maturata nell’avventura concertistica del poema sinfonico (s)drammatizzato”. “Macbeth è l’eroe annientato dal suo stesso progetto”.
E non abbiamo dubbio che sia proprio accaduto questo anche nel Macbeth del Lirico Sperimentale, in anno Domini 2024.