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Lettera aperta al dirigente ospedaliero e allo staff della clinica Ospedaliera ex Silvestrini di Perugia: come sentirsi un numero di un letto d’ospedale

Redazione

Lettera aperta al dirigente ospedaliero e allo staff della clinica Ospedaliera ex Silvestrini di Perugia: come sentirsi un numero di un letto d’ospedale

Lun, 16/09/2024 - 13:57

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Riceviamo e pubblichiamo la seguente lettera.

Mi chiamo Lisa Cardellini, ho 33 anni e sono medico specialista in Pediatria. Ma prima di questo sono figlia di Paolo Cardellini, che a 63 anni si è ammalato di tumore al polmone e dopo 7 mesi di lotta contro la malattia è venuto a mancare a marzo 2024. 
Quel 14 agosto del 2023 me lo ricordo come se fossero passati solo 5 minuti. Una radiografia fatta per accertamenti in seguito a dei mal di schiena che duravano da una decina di giorni e poi quelle inequivocabili lesioni alla colonna vertebrale. Ricordo ancora la telefonata al 118 e le parole scambiate con gli ausiliari dell’ambulanza per spiegare la delicata ed urgente situazione. E da lì il calvario: già, perché mio papà ha scelto un giorno prefestivo per aver bisogno della sanità pubblica. Ha trascorso 63 anni della sua vita a lavorare onestamente e a pagare puntuale le tasse e i contributi allo Stato. Il 14 agosto 2023, al pronto soccorso, mio padre ha atteso la bellezza di 8 ore prima che se ne prendessero carico. Dopo il ricovero nel reparto della MIV (Medici Interna Vascolare) ci sono volute altre 24h e una mia telefonata di sollecito, al medico di guardia, perché qualcuno si prendesse la briga di parlare a mio padre della sospetta diagnosi. Il collega di guardia affermò: ”signorina, ma lo sa che significa dire a qualcuno che ha un tumore in metastasi?” – gli risposi: “lo so più che bene, a mio padre l’ho detto io.. ad aspettare voi stavamo freschi.” Per non parlare del rischio di paraplegia che mio padre ha corso, perché, dal centro privato di radiografia, dove la mattina del 14 agosto aveva effettuato la risonanza che ha permesso di comprendere la diagnosi, nessuno si è premurato di comunicare a mio padre che aveva ben due fratture vertebrali lombari che, con un solo movimento sbagliato, lo avrebbero condotto sulla sedia a rotelle. Da lì un susseguirsi di montagne da scalare: una sanità che dopo l’esperienza dei miei studi pediatrici – conclusi circa 8 anni fa – ho ritrovato in ginocchio con urgenti esami rimandati di giorno in giorno. Comunicazioni pressoché assenti, con pazienti senza nemmeno una diagnosi chiara, informazioni mancate, tra personale medico e paziente. Mi sono ritrovata costretta a ritornare in Italia, dalla Germania, per gestire al meglio una situazione inenarrabile. Reparti sotto personale; care giver costretti a non lasciare il letto dei parenti per non correre il rischio di far saltare i pasti; medici con turni così lunghi da riuscire a parlare con i familiari solo nei ritagli di tempo, correndo tra un corridoio e l’altro. Ho trovato colleghi con tanti pazienti da seguire che non avevano il tempo di leggere neppure le cartelle cliniche, per prepararsi, come sarebbe consono al giro visite.Negli ultimi mesi sono stata costretta a ridurre il mio lavoro ad un part time per poter essere fisicamente presente alle terapie di mio padre con i medici del team oncologico, che, nonostante sapessero con largo anticipo che mi sarei spostata da Berlino, il giorno delle chemioterapie non si facevano trovare. Mi tornano in mente le innumerevoli email mandate per ricordare ai medici curanti di controllare l’emocromo di papà. Mi vengono in mente le ore passate a sperare che si sarebbero trovati degli equipaggi per partire in ambulanza e fare le terapia salvavita. Mi viene in mente la voce della segretaria della USL1 di Torgiano che mi dice: ” signorina, i mezzi non ci sono, il personale manca, però certo pagando un’ambulanza si trova.” Mi viene in mente lo specializzando che dice a papà che avrebbe fatto una terapia di mantenimento per i prossimi due anni, facendomi capire che non aveva nemmeno letto la diagnosi sulla cartella clinica. Mi viene in mente la Radioterapia rimandata perché il macchinario era rotto e nell’intero ospedale si trattava dell’ unico macchinario a disposizione. Mi vengono in mente tutte le mail spedite ai tanti colleghi cercando di accorciare le tempistiche di diagnosi del tumore primario. Mail mandate da me, da Berlino, anche di notte.Mi viene in mente le Tac indispensabili per procedere con le cure per cui non c’erano posti né appuntamenti, per cui ovviamente venivano ritardate le cure. Mi ricordo il supporto degli psicologi a reparto su completa base volontaria in un reparto pieno di pazienti terminali. Ammesso che lo sappiano, perché mio padre, ad esempio, stava ancora attendendo un colloquio per parlare di quale tumore avesse. E mi chiedo… ma è giusto tutto ciò? È davvero compito mio aiutare a fare diagnosi in una clinica universitaria? Chiamare la USL e sentirmi dire che non ci sono soluzioni se non a pagamento? È compito mio, da figlia, contattare colleghi per accertarmi che mio padre venga trattato come dovrebbe essere trattato qualsiasi paziente? La risposta purtroppo già la so. Non è compito mio. Ho dovuto trascorrere tutto il tempo con mio padre a fare il lavoro della sanità pubblica. Chi me lo ridará caro Stato italiano? Non è abbastanza già perdere qualcuno che si ama? Ci si deve davvero anche sbattere con una sanità in ginocchio, medici che non hanno mostrato empatia nemmeno davanti ad una fase terminale perché stremati da turni infiniti e non appaganti? E in tutto questo quadro là seduto c’è anche mio padre, mio, lucido e capace di intendere e di volere fino all’ultimo giorno di vita. E si è chiesto… ma davvero tutti questi anni di contributi per una sanità così? Per sentirmi un numero di un letto d’ospedale?

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