L’impatto della crisi Covid sull’Umbria: lavoro, imprese, famiglie. Il consueto rapporto della Banca d’Italia sull’economia regionale questa volta è diviso in due: ciò che è accaduto prima di marzo e quello che ha portato lo tsunami Coronavirus.
La pandemia di Covid-19 ha colpito l’economia dell’Umbria in una fase di ripresa ancora debole. Nel 2019 il PIL era aumentato dello 0,5 per cento, secondo i dati di Prometeia. Nell’industria il valore aggiunto e il fatturato erano tornati a flettere. Le esportazioni avevano interrotto una lunga fase di espansione, per il forte calo delle vendite nei settori dei metalli e dei mezzi di trasporto. L’indebolimento della congiuntura e la diffusa incertezza avevano negativamente condizionato l’accumulazione di capitale, frenando i nuovi investimenti. Nell’edilizia e nell’agricoltura era proseguito il parziale recupero dell’attività iniziato l’anno precedente, mentre nei servizi la crescita aveva rallentato. La redditività e la liquidità si erano mantenute su livelli ancora elevati, contenendo la domanda di credito delle imprese. L’occupazione era cresciuta in misura robusta. L’incremento aveva riguardato soprattutto il lavoro dipendente a tempo indeterminato, favorito dalle trasformazioni dei rapporti a termine. Le famiglie consideravano ancora soddisfacente la propria situazione economica.
A partire dall’ultima settimana di marzo l’attività economica regionale ha subito pesanti ripercussioni per via delle misure di sospensione nei settori non essenziali: la quota di valore aggiunto delle attività sospese in Umbria è pari a quasi il 28 per cento del totale, in linea con la media italiana. Tale quota si è ridotta all’otto per cento circa in seguito alle riaperture di inizio maggio. Gli operatori si attendono che il recupero dell’attività nella seconda parte dell’anno sarà molto parziale. Le stime più recenti dell’Agenzia Umbria Ricerche indicano per il 2020 un calo del PIL lievemente meno intenso rispetto agli scenari previsivi per il Paese.
La domanda interna ed estera rivolta alle imprese umbre ha subito un forte calo nella prima parte dell’anno. L’indagine straordinaria condotta su un campione di imprese industriali e dei servizi tra la metà di marzo e la metà di maggio prefigura una diminuzione del fatturato di quasi un quinto nel primo semestre. Il settore più colpito è il terziario, per l’interruzione prolungata delle attività di alloggio, ristorazione e commercio al dettaglio non alimentare. Nei servizi il calo dell’attività sarà più persistente per le restrizioni ancora in vigore all’aggregazione sociale. Le prospettive peggiori riguardano il comparto turistico, la cui ripartenza sarà molto graduale, considerando il tempo necessario per riacquistare la fiducia dei viaggiatori; in Umbria, tuttavia, il recupero potrebbe essere meno lento rispetto ad altre aree del Paese, in considerazione della bassa dipendenza dei flussi dal turismo internazionale. Anche l’edilizia ha subito gli effetti della pandemia in misura significativa; al contenimento delle perdite potrebbe contribuire, oltre ai recenti provvedimenti di incentivo, il recupero dei ritardi accumulati per la ricostruzione post-terremoto. Sul fronte industriale la situazione rilevata dalle aziende delinea uno scenario analogo a quello della fase più acuta della crisi finanziaria globale. Il calo del fatturato è stato più accentuato per i cementifici, per le imprese inserite nelle filiere globali dell’automotive e dell’aerospace e per quelle dell’abbigliamento. Solo il settore alimentare, che nel precedente decennio aveva subito un forte ridimensionamento dell’attività, e i produttori di beni igienizzanti e sanitari hanno incrementato le vendite.
Le imprese del territorio hanno operato una significativa revisione al ribasso dei piani di investimento che potrebbero ulteriormente risentire dell’elevata incertezza sull’evoluzione della pandemia. Il blocco delle attività ha aumentato il fabbisogno di risorse liquide; le aziende a rischio di illiquidità nei settori sottoposti a chiusura sono quasi un quarto del totale, in prevalenza di piccolissime dimensioni e concentrate nei servizi commerciali e del turismo. Le condizioni economiche e finanziarie più solide in media rispetto al passato consentono comunque di affrontare questa crisi con una maggiore capacità di assorbire shock negativi.
Le ricadute sul mercato del lavoro sono state considerevoli. I dati sulle comunicazioni obbligatorie evidenziano dal mese di marzo una caduta del numero di assunzioni di lavoratori dipendenti, di intensità superiore alla media italiana. Il massiccio ricorso alla Cassa integrazione, estesa eccezionalmente a tutte le imprese, e il divieto di licenziamento hanno attenuato l’impatto sulle posizioni a tempo indeterminato. L’emergenza ha comportato sin da subito un incremento degli scoraggiati che si è riflesso in un calo della partecipazione al mercato del lavoro. In prospettiva, l’occupazione potrebbe contrarsi più decisamente rispetto al resto del Paese, in relazione alla maggiore incidenza in Umbria delle attività e delle categorie lavorative più esposte alle conseguenze economiche della pandemia.
Le condizioni delle famiglie umbre sono destinate a peggiorare per gli effetti dell’emergenza economica sul reddito disponibile e sul valore della ricchezza; quest’ultima alla vigilia della crisi risultava inferiore di oltre un settimo in termini pro capite rispetto alla media italiana. L’impatto negativo dovrebbe essere comunque attenuato dalle misure di supporto pubblico, dalla ricomposizione delle attività finanziarie operata dai risparmiatori negli ultimi anni a favore di una maggiore diversificazione e di strumenti più liquidi, oltre che da condizioni di sostenibilità del debito migliori rispetto alla crisi precedente. Nei primi tre mesi del 2020 le nuove erogazioni di mutui e di credito al consumo si sono ridotte. Dal lato della raccolta si è accentuata l’espansione delle disponibilità in conto corrente.
In Umbria è proseguita la ricomposizione del mercato a favore degli istituti extra regionali, in atto da tempo per effetto delle numerose incorporazioni di banche locali. Nel primo trimestre di quest’anno si è attenuato il calo dei prestiti al settore privato non finanziario. Vi hanno influito le misure di moratoria e gli strumenti di nuova finanza previsti dal decreto “cura Italia”. In prospettiva, lo shock economico causato dalla pandemia potrebbe riflettersi in un forte peggioramento della qualità dei prestiti.
La crisi ha determinato l’aumento delle esigenze di spesa degli enti territoriali e la riduzione delle loro fonti di entrata. Nel corso dell’emergenza anche in Umbria sono state incrementate le risorse a disposizione del sistema sanitario per rafforzare la dotazione di posti letto in terapia intensiva, di medici e infermieri. La Regione ha inoltre destinato a sostegno del sistema economico circa 120 milioni di euro, in larga parte derivanti da una rimodulazione dei fondi comunitari, il cui grado di utilizzo rimane in Umbria tra i più bassi nel Paese. Nel 2020 gli equilibri di bilancio dei Comuni umbri risentiranno degli effetti connessi all’emergenza: a fronte di spese in gran parte incomprimibili, anche relative a investimenti in infrastrutture economiche rilevanti per la ripresa dei territori, vi saranno da fronteggiare i vincoli di liquidità connessi con lo slittamento degli incassi e con le perdite di gettito. Ne ha cominciato a risentire anche la spesa per investimenti che dallo scorso anno aveva evidenziato segnali di ripresa grazie all’allentamento dei vincoli di bilancio.
All’inizio degli anni Duemila l’Umbria si collocava in un gruppo di regioni europee con un PIL pro capite ampiamente superiore alla media dell’Unione europea. La caduta dell’attività economica nella lunga fase recessiva, molto più intensa rispetto alle aree di confronto, e il più lento recupero degli ultimi anni ne hanno determinato un declino del posizionamento nel contesto europeo. Sull’andamento dell’economia regionale hanno inciso le forti debolezze strutturali del tessuto economico, riconducibili principalmente alla bassa produttività dei fattori, che potranno verosimilmente essere da freno alla ripresa dell’attività nella fase di uscita dalla crisi indotta dall’epidemia.