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Fotografo di Terni vince il premio “Unicef 2012”. Alessio Romenzi nell'inferno della guerra in Siria

Luca Biribanti
È un italiano, ternano di origine, il fotografo 2012 dell'Unicef. La sua reflex ha immortalato l'immagine di una bimba dallo sguardo impaurito mentre si trova nell'ospedale Dar El Shifa di Aleppo, Siria. Alessio Romenzi, 38 anni, è stato in prima linea durante la guerra civile nell'ambito della quale è riuscito a scattare questo contrasto di emozioni tra gli occhi impauriti della bimba e il braccio di un uomo che impugna il kalashnikov.


Di seguito si può leggere la bella intervista di Renata Ferri de “Il Post” che è riuscita a realizzare tra mille difficoltà lo scorso febbraio:

Dove sei in questo momento?
Non posso dirlo. Mi sento più sicuro.

Diciamo che sei in Siria o vicino al confine. Un amico, anche lui fotografo di guerre in giro per il mondo, mi ha detto che non puoi stare “dentro” troppo a lungo. Ti scoprono, ti identificano, ti cacciano, quando ti va bene. Perché hai deciso di andare in Siria?
Venire in Siria mi sembrava un’occasione per fare il lavoro che amo: fare buone fotografie e avere maggiore visibilità, farmi conoscere. Di fatto è quello che sta succedendo. Pochi fotografi sono entrati nel Paese. Professionalmente sono molto giovane: ho cominciato solo due anni fa e i miei lavori in Libia e Egitto sono passati del tutto inosservati. Lì ho incontrato tanti fotografi bravi, con esperienza e committenze dalle più importanti testate del mondo. Al ritorno da quest’esperienza ero molto frustrato per cui mi sono spinto qui. Non è una scelta casuale e neppure avventata, ma perfettamente in linea con la vita che voglio fare: raccontare storie in situazioni estreme.

Avevi già dei contatti in Siria?
I contatti che avevo e che mi hanno permesso di arrivare a ridosso del confine, si sono rivelati fasulli per entrare in Siria e lavorare. Mi ci sono volute due settimane per trovare i contatti giusti, contrabbandieri locali, e finalmente entrare nel Paese.

Dunque? Una volta dentro?
Tutto è successo molto naturalmente: sono entrato in contatto con “attivisti” che sostengono la rivoluzione che mi hanno ospitato a rotazione nelle loro case. Mi muovo sempre accompagnato da qualcuno di cui mi fido. Non dormo quasi mai due notti di fila nello stesso posto. A volte dormo in città, altre in qualche cascina in aperta campagna. Adesso tutti sanno chi è l’italiano con la barba rossa. Lo sanno anche persone favorevoli al regime che non approvano quello che sto facendo, per questo è bene prendere tutte le precauzioni del caso. Qualche volta dormo letteralmente sotto scorta. Per i ribelli sono un bene prezioso, perché ho contribuito a far conoscere la loro condizione di vittime della repressione.

Proprio questo vorrei capire: perché i ribelli si sono fidati di te?
All’inizio è stato complicato. Mi sono avvicinato con molta cautela, erano prevenuti: avevano visto troppi giornalisti che, secondo loro, avevano raccontato il falso e li avevano messi in cattiva luce. E poi la paura delle spie del regime, chi gli garantiva che non ero un infiltrato? L’esperienza con i ribelli libici, una dose di fortuna e la situazione è cambiata in modo spontaneo e favorevole per me. Sono stato accettato e creduto.

Immagino che tu sia rimasto a lungo nello stesso posto, città o villaggio: è difficile, se non impossibile e rischioso spostarsi, non è vero?
Esatto. Spostarsi è uno dei problemi maggiori. La situazione è estremamente fluida e in costante evoluzione. La resistenza non è in grado di controllare il territorio e la strada che ieri era sicura, oggi può essere presidiata da truppe del regime. Soltanto un paio di giorni di fa, due membri della SFA sono stati uccisi perché caduti in un’imboscata appena fuori città. Per percorrere i venti chilometri che mi separavano da Homs ci sono voluti dieci giorni di attesa e tre ore di macchina zigzagando per strade di campagna, col cuore in gola e con la kefia a coprirmi la faccia visto che non ho una fisionomia esattamente araba. Non c’è un fronte ribelle, un esercito, dietro al quale potersi muovere.

Nel primi lavori che hai mandato dalla Siria sembra che non ci sia Guerra, ma solo tu e un gruppo di ribelli, sembra una situazione quasi “fuori dal mondo”.
È davvero una situazione fuori dal mondo. Uno spazio senza tempo. Un’arena dove si lotta per la sopravvivenza: disposti a uccidere ma anche a essere uccisi. Cerco di raccontare la guerra come una storia fatta di individui. I miei occhi non vedono mai due eserciti che si confrontano ma uomini, donne e bambini, e sono loro che mi interessa raccontare.

Le donne che hai fotografato, parte importante del tuo racconto, si sono relazionate in modo diverso rispetto agli uomini?
Le donne che ho ritratto volevano dimostrare che stavano dando il loro contributo alla rivoluzione ed erano fiere di mostrarsi davanti alla macchina fotografica. Non ho trovato differenze tra il loro atteggiamento e quello degli uomini impegnati nella rivolta.

Come è arrivato l’assignment di Time: ti hanno contattato prima o quando eri già sul posto?
Sì, mi hanno contattato quando ero già in territorio siriano. Sono partito da casa senza accordi con nessuna testata.

Hai avuto scambi con Tomas Munita, il fotografo cileno, che è, o è stato fino a poco fa, dentro il paese?
No.

Cosa fa più paura?
Fa paura entrare da soli in una situazione così pericolosa che, fino ad allora, hai solo sentito raccontare. Fa paura non avere riferimenti e non conoscere i luoghi. Fa paura sapere che il fatto di restare in vita o meno, spesso è legato solo alla fortuna. Hai tanti, troppi elementi incontrollabili che non dipendono da te. Puoi prendere tutte le precauzioni del mondo ma le brutte sorprese le puoi trovare lo stesso. Lo sappiamo tutti che è così e sappiamo tutti che può succedere di tutto, in un attimo. Non dico altro.