“Bellina”, la realizzazione di “Un quaderno per l’inverno” ha incontrato, termine caro a Massimiliano Civica, gli spettatori della Sala Frau. Un incontro, come quello tra Nino e il professore, sospeso tra l’ironia e l’elegiaca dolcezza della ‘simpatia’ tra individui.
Alberto Astorri e Luca Zacchini per il testo di Armando Pirozzi, hanno portato sulla scena di “Spoleto ’60” una riflessione profonda sulla funzione della poesia nella vita dell’uomo, senza retorica o volontà di affermazione, ma con lo spirito di creazione spontaneo di un testo che non sembra neanche scritto, ma improvvisato.
Il professore e il ‘fuorilegge’ Nino sono subito sulla scena, il sipario è alzato, non ci sono filtri. È l’immediatezza dell’espressione poetica che richiede un subitaneo contatto diretto col pubblico, così come la scenografia è praticamente inesistente; un coltello, un tavolo, due sedie, uno spremiagrumi, due bicchieri e qualche arancia. Nulla deve distogliere lo spettatore dai dialoghi tra i due attori che conducono a un tema molto caro alla lirica del ‘900 e sul quale, forse da troppo tempo, non ci si confronta più.
Nino ruba per sopravvivere e attende che il professore rientri a casa per rapinarlo, o almeno così sembra. In realtà il furto è già stato compiuto qualche tempo prima, il furto di un computer; ma Nino è tornato perché vuole, allo stesso tempo, rubare ancora e restituire qualcosa. Restituire un quaderno di poesie al professore. A Nino piacciono quei versi, trovati in un ‘libertcuolo’ contenuto nella borsa del pc rubato al professore. “Scrivi un’altra poesia!” – minaccia Nino con un coltello. Il professore non comprende, è smarrito. “Mia moglie è in coma, ma quando le ho letto le tue poesie ha reagito” – spiega Nino – “Voglio un’altra poesia per stasera”.
Il professore, dopo la paura iniziale, inizia a capire che in fondo quello è solo un ladro di versi, un ladro di umanità, vuole solo rubare una speranza, e quella speranza è la poesia. Crede che la scrittura del professore possa in qualche modo salvare la moglie. Ma è pura illusione, così come la poesia è illusione. Il professore compone tre versi e Nino corre in ospedale per leggerli alla moglie, ma lei, è già morta.
I due si ritrovano a casa del professore e trascorrono una serata surreale; spaccano arance, ne bevono il succo, parlano di amore, morte, poesia, scrittura; si ubriacano di reciproco affetto. Sconvolti dal sonno si addormentano, ma il professore, di nascosto, infila il suo ‘diario’ nella tasca di Nino che, svegliatosi in un’ora imprecisata in assenza del professore, abbandona la casa.
Passano otto anni. A farlo capire sono soltanto le parole dell’attore, perché la scena non cambia e i personaggio sono sempre sul palco; il tempo no ha importanza. Il tempo della ‘storia’ non coincide con il tempo dello ‘spirito’. Nino si reca ancora a casa del professore per rapinarlo; il figlio è cresciuto, ora ha 18 anni, fa il commesso in un negozio, ma deve sposarsi. Nino vuole soldi, ma, in realtà ha bisogno di qualcos’altro. Sottrae il computer, ancora una volta, al professore, ma non si decide ad andarsene dalla casa. Temporeggia, poi, improvvisamente, tira fuori un pezzo di carta, con uno scritto del figlio.
Nino ha regalato il ‘libercolo’ del professore al figlio, che lo ha preso come testamento spirituale di un padre che per vivere ha bisogno di rubare. I versi del professore sono piaciuti anche a lui e sulle stesse pagine ha scritto qualcosa. Il padre lo ha letto, ha visto nel figlio del talento; o solo la speranza. La speranza che da quella piccola poesiola “Bellina” – dicono gli attori – possa nascere, per lui, un futuro migliore. Anche se ora fa il commesso e non ha potuto studiare. Anche se non ha frequentato l’università. Anche se suo padre ruba. Anche se nessuno lo leggerà mai.