Silvia Costa è una vecchia conoscenza di Spoleto. Da perfetta allieva di quel “farabutto geniale” di Romeo Castellucci, partecipò da protagonista al Festival dei Due Mondi già nel 2018 quando il regista e scenografo cesenate mise in scena “La morte di Empedocle” nella palestra della ex-scuola media di Baiano di Spoleto, ora demolita per un nuovo progetto di ricostruzione.
Chi ebbe modo di assistere a quello spettacolo, seduto su dei cuscinoni da fachiro a terra, tra spalliere al muro, le parallele e i canestri da basket, ricorderà perfettamente l’incipit di quel lavoro.
Si trattava dell’audio a tutto volume del suono catturato dagli scienziati della Nasa del più grande Buco Nero della Via Lattea (di nome Perseus), distante 250milioni di anni luce dalla Terra. Quando il suono finiva all’improvviso le vibrazioni interne rimanevano talmente persistenti che rimbalzavi per la palestra per almeno altri 5 minuti.
Da un insegnamento del genere, la nostra Silvia Costa deve aver almeno appreso il gusto per il disorientamento del pubblico. Tant’è che nell’assistere ad Harawi-Canto d’amore e di morte su musica di Olivier Messiaen in scena a San Simone -spazio teatrale già lunare di suo- sembra di essere ammarati sulla faccia oscura di un pianeta con tutto quello che ne consegue in termini di ossigenazione e senso del destino.
Harawi è il terzo ciclo vocale composto da Olivier Messiaen, il cui nucleo tematico dedicato al concetto di amore e morte, è come quello racchiuso nella leggenda medievale e poi romantica di Tristano e Isotta. Lo stesso poi si ibrida con il canto d’amore peruviano yaravì , originato da canti ancestrali in lingua quechua, ceppo linguistico del popolo Inca.
Partendo dall’assunto che cotanto prodromo è rintracciabile solo nel libretto di sala, la conseguenza immediatamente successiva è che, o ci si informa sul tema per bene prima o altrimenti capita come ieri pomeriggio 1 luglio, che una decina di persone fuggano anche rumorosamente da San Simone, forse pensando di aver sbagliato spettacolo.
La verità è che si dovrebbe resistere stoicamente ed educatamente fino al termine della rappresentazione, ma la carenza di ossigeno gioca brutti scherzi e mette in moto il concetto di sopravvivenza.
Tanto per dire, la danza Doundou Tchil, parte del programma, ripete ossessivamente per venti volte l’onomatopea in lingua quechua. E non è la sola. (Ne proponiamo una versione trovata in rete a scopo “intimidatorio”)
“Per ascoltare questi canti– spiega Silvia Costa –c’è bisogno di abbandono, di sospendere la comprensione per farsi sorprendere dalla sua stranezza, dall’immediatezza quasi giocosa dei suoi versi, delle ripetizioni forsennate. Sono il delirio di una solitudine, enigmi di un’anima in pena, preghiere e scongiuri magici per poter riportare in vita il proprio amore. La dimensione teatrale segue questa navigazione nel mare scuro del dolore, estrapolando dal materiale musicale gli elementi per un rito funerario amoroso, fatto di memorie, di sensazioni a fior di pelle, di danze e sangue, odori, passioni notturne e sogni, perché l’amore trova la sua eternità nella morte, la sua realizzazione vera non è nella vita, ma in un aldilà incorporeo e atemporale“.
Noi poveri osservatori di campagna saremmo tentati dall’eternità materiale del “tutto e subito”, ma ci sforziamo di capire anche il punto di vista degli altri. Come diceva il noto poeta Paolo Conte “Noi di provincia siamo così. Le cose che mangiamo sono sostanziose come le cose che tra di noi diciamo. Noi provinciali siamo così le cose che cantiamo van ben per i soldati e i muli”.
In verità Conte cantava anche una famosa celia contro i Francesi del Tour de France del ’52 “che si incazzano che le balle ancora gli girano…” per la seconda vittoria consecutiva di Fausto Coppi.
Ed Harawi-Canto d’amore e di morte è onestamente molto, troppo, francese come genere di approccio per amore e morte.
Per dirla alla Flaubert, Silvia Costa offre, a scopo rieducativo, un interessante punta di vista teatrale, una evidente sottrazione di cardini e riferimenti, che obbligano ad una concentrazione massima sul tema del canto e della musica. Nella faccia oscura del pianeta in cui siamo ammarati non ci possono essere molte altre cose in effetti. Pochi elementi di scena, un serpentello, una lapide (ovviamente necessaria) ed un paio di scarpe ballerine animate dalla musica di Messiaen suonata da una splendida e bravissima Costanza Principe, da poco premiata a Casa Menotti, che con il suo pianoforte isolato in un angolo sembra tenere intatto l’unico filo di congiunzione con il pianeta terra. E la voce efficace e decisamente robusta della soprano Katrien Baerts, elemento decisivo in special modo quando si tratta delle frequenti onomatopee, autrice di un acuto cantato completamente sdraiata a terra. Diciamo una richiesta di regia un po cattivella da fare ad un cantante.