Che Emma Dante sia una risorsa preziosa del Festival di Spoleto, non c’è dubbio. Sapere che una sua regia farà parte del programma festivaliero crea attesa e sopratutto attrae tutta una folta schiera di affezionati della regista palermitana.
Quest’anno poi, in occasione di Spolet62, si verifica una curiosa coincidenza con quanto accadde nel 2017, quando a San Simone, per Spoleto60, andava in scena Troilo Vs Cressida con la regia del duo Ricci-Forte (CLICCA QUI). Anche quell’anno, i registi di San Simone erano contemporaneamente impegnati su due fronti importantissimi: il Festival di Spoleto e la regia lirica di una epica Turandot in programma a distanza di pochi giorni, al Macerata Opera Festival (CLICCA QUI).
Accade dunque la stessa cosa anche ad Emma Dante che quest’anno mette inscena Esodo per il Festival dei Due Mondi e contemporaneamente sta seguendo la regia del Macbeth allo Sferisterio di Macerata.
C’erano tutte le premesse per un piacevole dejavù. Se non fosse che a noi semplici osservatori, mai critici con l’elmetto, Esodo è apparso uno spettacolo, come dire, al minimo sindacale.
Abbiamo sempre, per formazione culturale personale, delle difficoltà ad accettare in scena la cosiddetta re-citazione, ovvero il citare un testo sulla cui vita, dopo la scrittura c’è tutto da dire. O anche una naturale diffidenza nei confronti della tecnica attoriale, se mai ne è esistita una. Una difficoltà che con Emma Dante non si è mai verificata. Ricordiamo una splendida Odissea a/r a Spoleto59, edizione in cui furono necessarie due repliche supplementari, tanto era stato il successo di quella completa riscrittura (CLICCA QUI)
In Esodo, per Spoleto62, va in scena un lungo lavoro compiuto dalla regista con gli allievi della “Scuola dei mestieri dello spettacolo” del Teatro Biondo di Palermo.
Citiamo direttamente dal programma di sala:
Si tratta di una riscrittura del mito di Edipo in chiave contemporanea, che parla di noi, del bisogno di confrontarsi con l’altro e di accogliere le differenze, in nome di un origine e di un destino comune. Il rituale del teatro, nella relazione tra chi lo fa e chi lo osserva, è lo spazio simbolico ideale per elaborare questo bisogno di comunità.
Il palcoscenico è la meta. In un lungo cammino migratorio, Edipo è accompagnato dalla sua famiglia; donne e uomini tebani, Giocasta, Antigone, Ismene, Creonte, Tiresia e il vecchio Laio, ormai decrepito, lo seguono nell’oscurità delle tenebre. La famiglia è in cerca di un rifugio e non appena Edipo incontra il nostro sguardo comanda di fermarsi. I pellegrini disfano le valigie e si accampano. Il palcoscenico diventa il campo dove imbastire il racconto della tragedia. Edipo si presenta al pubblico declamando la sua frase cardine: «Io sono Edipo, uno che non ha certo una prospera e invidiabile sorte. La mia origine è orrenda». Parte una musica, tutti ballano, e l’immagine degli stranieri vagabondi e mendicanti, portatori di un’identità intollerabile, trasfigura in quella di pellegrini espianti.
Il bosco sacro alle Eumenidi riecheggia di suoni in un concerto meraviglioso della natura. Edipo chiude gli occhi e ascolta la musica del bosco incantato.
Poi, rivolgendosi al pubblico, dice: «Stranieri, in nome di dio, proteggete la mia famiglia. Ricordatevi che gli dei guardano all’uomo devoto quanto all´empio e che non esiste scampo per alcun sacrilego al mondo. Vi racconto la mia tragedia in cambio di ospitalità. Mi caverò gli occhi per l’ennesima volta. Io e il coro errante di anime, che sempre resta al mio fianco, vi preghiamo di accoglierci! Abbiate pietà, siamo nelle vostre mani come nelle mani di un dio. Lasciateci varcare il confine e consentiteci di continuare a vivere. Non vi daremo disturbo, ci adatteremo, rispetteremo le vostre leggi, adorandovi come salvatori dell’umanità». Edipo si veste da re e rivive la sua tragedia.
Ora che si tratti di riscrittura non v’è dubbio, ma il contenitore in cui tutto ciò è stato collocato, e tutto quanto è sembrato opportuno alla regia per offrire una lettura nuova del mito di Edipo, francamente ha avuto una resa molto asciutta, per non dire rarefatta.
Ci è sembrato di notare una certa fretta nel risolvere il tema edipico, come se alcune trovate contestuali, come quella delle prefiche che si mettono a recitare un rosario strampalato in una lingua-non lingua nella immaginaria Tebe in lutto, fossero un rimedio efficace per arrivare a capire cosa stesse accadendo in quel luogo, in quel momento. In realtà il pubblico si diverte solo per l’assurdità del siculo-rosario.
C’è in scena una sorta di distrazione di massa vera e propria dal mito, il che non sarebbe affatto un male, se non fosse però che alla fine, almeno noi osservatori, ci siamo concentrati per primo, su cosa stessero dicendo gli attori (colpa grave di non aver pensato ad una minima amplificazione ambientale in quel di San Simone), e per secondo sulla caciara della famiglia di Edipo, molto prossima ad una Vucciria metazigana in festa, tra musichette e panni stesi dopo un lungo viaggio.
Cosa rimane alla fine? E chi lo sa…
Accoglienza del diverso? La comprensione umana dopo la tragedia degli eventi? L’inconsistenza dei confini?
Possiamo dire con ragionevole convinzione che a San Simone abbiamo goduto di una asciutta incertezza, ma che al Macerata Opera Festival godremo di una splendida regia del Macbeth. Esodati, per una regia al minimo sindacale, ma nutriamo speranze per il futuro.
In verità al Festival di Spoleto Edipo è di casa. Indimenticabile l’Oedipus Rex del Vakhtangov Theatre con la regia di Rimas Tuminas, in cui il famoso contenitore della riscrittura era un gigantesco cilindro di scena in cui tutto accadeva. Subliminale! (CLICCA QUI)
Forse è per questo che ci sentiamo esodati da Esodo?
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Foto: M.L. Antonelli (Agf) – Festival dei Due Mondi