Chi si sarebbe meritato un applauso scrosciante ieri sera, 30 giugno, al debutto, nel rinnovato Auditorium della Stella, di Demi Véronique (scritto diretto e interpretato da Jean Candel, Caroline Darchen e Lionel Dray) è una solitaria fetta biscottata (pane tostato?) che nel mezzo di un delirio scenico dal sapore post-apocalittico, fugge dal luogo del misfatto attraversando il palcoscenico, sulle prime con circospezione e poi accelerando il fugone strategico.
Forse uno dei pezzi di teatro più interessanti di questi ultimi tempi.
E pensare che l’apertura della piece aveva in se delle interessanti premesse nel mentre il Prologo (Lionel Dray) si dilungava su concetti come l’Apocalisse e il Nigredo. Per chi fosse digiuno della materia, il tema del Nigredo è strettamente legato al compimento dell’Opera alchemica. È la prima fase in cui la materia si tramuta in qualcosa d’altro attraverso la putrefazione indotta dal fuoco.
Non a caso la scena unica di Demi Véronique è proprio una casa divorata dal fuoco, in cui rimane ben poco da utilizzare e quel poco è una sorta di materia sublimata che serve per una ipotetica rinascita.
Ed è così che i protagonisti della scena, una coppia (Lionel Dry e Caroline Darchen), si adoperano per recuperare un brandello di vita quotidiana, mentre una sorta di demiurgo teatrale (qualcosa come una coscienza superiore silente?) (Jean Candel) si dimena nel tentativo di scrollare di dosso ai suoi assistiti i residui del grande falò, le incrostazioni annerite prodotte dal Nigredo.
Ora è chiaro perchè la fetta biscottata superstite, seppure sbruciacchiata, assurge a dimensione eroica quando decide di fuggire. Lo avrebbe fatto chiunque, dopo la prima mezzora di spettacolo in cui la nota di sottofondo è il disorientamento.
E per fortuna che tutta la piece è accompagnata dalla Sinfonia n° 5 di Gustav Mahler che in qualche modo è stata la promessa di resurrezione di una messa in scena decisamente presuntuosa. Ma questo ovviamente lo diciamo noi che siamo giornalisti di campagna, dunque dalla mentalità ristretta e sicuramente poco adusa alla grandeur teatrale francese.
Cantava Paolo Conte nella illuminata e calzante Snob, “Noi di provincia siamo così,
le cose che mangiamo son sostanziose come le cose che tra di noi diciamo…”, mentre in Demi Véronique troneggia l’assenza di parola. Il teatro asciugato, anzi cremato! E’ pur vero (sempre secondo C.B.) che il testo “è spazzatura” ma una riscrittura di scena anche minima non ci sarebbe stata male.
Il tutto al netto di qualche versetto o smorfietta alla Mac Ronay di Lionel Dry che fa tanto simpatica memoria. Ne è conseguenza immediata una certa ricerca di guitteria circense, quasi ad ingannare il tempo di 70 minuti della durata della piece. Grande entusiasmo per l’equilibrismo a piedi nudi sui piatti in mezzo alla sabbia e una cassa di pane sulla testa. O per l’azzardo inverosimile di sedersi su una torre di fette biscottate (poi dice che le fette scappano dalla scena…).
Per non parlare poi del mangiatore di fuoco, che in realtà altro non è che un minzionatore a getto infiammabile che la fa di spalle al pubblico. Almeno il beneamato Carmelo Bene la rovesciava senza timori addosso agli spettatori delle prime file, quella vera! E si finisce con il classico dei classici: il lanciatore di coltelli, che in assenza di una lama credibile, utilizza una mannaia.
Ora se si potesse fare un bilancio sulle motivazioni artistiche di una simile messa in scena, l’unica risposta che ci viene in mente è che Jean Candel e company, si sentono “molto bellini”, proprio come il critico teatrale Guido Davico Bonino diceva del mai dimenticato C.Bene.
Solo che quello poi, un diavolaccio fumante h24, gli rispondeva da par suo “Tu dici che ho la pancia? Per favore, mi si inquadri in campo lungo….dov’è la pancia eh dove sta. Mal ti incolse. Sei un mentitore! “, spernacchiandolo con un eloquio antico quasi rinascimentale.
E a nulla è valso aver ascoltato il celeberrimo Adagietto mahleriano (fu usato per Morte a Venezia di Luchino Visconti, tanto per ricordare), mentre in scena i guitti candeliani azzannavano un filone di una roba tipo Panbauletto (orrore, almeno lo avessero fatto con un filone di Strettura cotto a legna), da cui morso dopo morso esce una luce che rigenera.
Se solo avessimo potuto concordare la grande fuga con la fetta biscottata, a quest’ora saremmo al sicuro su una spiaggia caraibica.
Applausi moderatamente soddisfatti e auditorium quasi al completo.
Ora non resta che attendere la terza puntata della saga Jean Candel -Samuel Achache che sono stati ingaggiati a Spoleto65 con una sorta di 3×2 come si fa con le promozioni del Super.
Debutta infatti stasera, 1 luglio, Sans Tambour di Samuel Achache, che dopo Le Crocodile trompeur e Demi Véronique chiude il ciclo dei “bellini ” di Francia.