In principio fu l’Orfeo di Monteverdi! Primo fulgido esempio di teatro musicale, con il quale prende avvio un certo stile del comporre e che con più di un secolo di anticipo apre la strada ad una evoluzione musicale e stilistica che approda “all’olimpica compostezza del gluckiano Orfeo ed Euridice”.
L’analisi della compostezza olimpica è affidata nel libretto di sala, per questa edizione spoletina dell’opera di Christoph Willibald Gluck, all’ispirato Enrico Girardi, professore, musicologo, critico musicale e -non da ultimo-Direttore artistico del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto.
Girardi spiega, con dovizia di riferimenti storici, un passaggio cruciale nel comporre, allorquando si passa dal melodramma, all’azione teatrale, quale appunto è l’Orfeo di Gluck. Un primo esempio di Opera riformata in cui una parte decisiva è affidata al librettista, il fumantino livornese Ranieri de’ Calzabigi. Il passaggio decisivo di questo percorso modificativo del comporre sta tutto nella presenza di un lieto fine. Quaranta numeri musicali armoniosamente divisi tra arie e recitativi, numeri strumentali, balletti e qualche raro numero d’insieme come i duetti. Una architettura che inevitabilmente prende per mano anche chi ne volesse dare un senso dal punto di vista della regia.
Echeggiano ancora nella nostra testa le parole di Giorgio Ferrara quando in più di una occasione di incontro con la stampa, con o senza protezione del feticcio dei mocassini rossi, lanciava decise intemerate contro le regie moderne di Opera, che catapultavano pubblico ed azione scenica in bar, tabaccherie, e magari- horribile dictu– nelle discoteche.
E quando si apre il sipario sulla messa in scena ideata dall’enfant prodige della regia d’opera italiana, Damiano Michieletto, la prima impressione è quella del Déjà vu che ci strappa anche un sorriso. Una candida ambientazione ospedaliera, un po camera mortuaria e un po sala d’aspetto del dentista, in cui serpeggia un discreto nervosismo dei pazienti prima della trapanazione.
Ma del resto Euridice è morta da poco, e giace su un letto-barella al centro della scena. E da qualche primo passo a tema bisogna pur iniziare per raccontare la vicenda in cui Orfeo scende nell’Ade per riprendersi l’amata.
Michieletto, inventa un candore scenico in cui si muove tutta l’azione teatrale dall’inizio alla fine e in cui saranno solo alcuni oggetti, luci e costumi a ricordarci che ci troviamo per quasi tutta l’opera gluckiana negli inferi. Un bel modo di confermare “l’olimpica compostezza” descritta da Girardi, in effetti.
Si legge nella sinossi festivaliera:
Nella originale rilettura di Damiano Michieletto il mito di Orfeo ed Euridice è fatto della realtà degli uomini. I due protagonisti sono prima di tutto una coppia in crisi alla quale viene offerta una via d’uscita. Per il regista, “il trionfo dell’amore alla fine deriva dall’esperienza della finitezza della vita. Questo pensiero è difficile da sopportare. La storia mitologica di Orfeo che salva Euridice non riguarda la realtà di un uomo che salva una donna dagli Inferi. […] Il senso del viaggio di cui parlano numerosi miti è, a mio avviso, il tentativo di mostrare, con mezzi artistici, un’esperienza di vita veramente significativa. Si tratta della possibilità di cambiare, di incontrarsi di nuovo, di amare di nuovo e forse anche in modo diverso”.
A differenza del mito, Michieletto sceglie di mostrare la coppia in scena fin dall’inizio. Il viaggio di Orfeo agli Inferi è metaforico, è un percorso lungo il quale ritrova sé stesso. Quante volte abbiamo sentito pronunciare la fatidica frase, “è stata come una discesa agli inferi”. Dunque non è un caso che, seppure in presenza di un metaforico odore di lisoformio, la regia di Michieletto crei una empatia con lo spettatore contemporaneo, a cui di certo non mancano discese agli inferi, fosse anche solo quella di avere a che fare con l’ufficio delle tasse una volta nella vita.
A noi per la verità piace molto l’idea di riprenderci l’amata, con la prospettiva di un lieto fine, scrollandoci di dosso tutte le incrostazioni carbonifere di un postaccio come gli inferi. E alla fine pensiamo che anche il compianto Giorgio Ferrara avrebbe compreso la scelta ospedaliera di Michieletto.
Una menzione speciale la merita-a partire dall’atto Secondo- “la oscura spelonca che forma un tortuoso laberinto, ingombrato di massi staccati dalle rupi, che sono tutte coperte di sterpi e di piante selvagge”.
Nell’Orfeo ed Euridice spoletino, la spelonca diventa una scatola prospettica, ovviamente bianca, dai piani inclinati e con la presenza di furie e spettri che sono fasciati in una sorta di carta velina total black, viso incluso. Per i vecchietti cinefili, come lo scrivente, l’aspetto delle furie e degli spettri spoletini è del tutto simile al finto lebbroso del film L’armata Brancaleone, tutto imbozzolato in un panno di spessa tela e chiuso alla sommità del capo.
L’effetto visivo di queste anime striscianti, non del tutto recuperate alla condizione spirituale, è potente ed evocativo. Una idea efficace, soprattutto se la spelonca è candida. E Orfeo ha il suo bel daffare a giustificare e derimere, con Lira o senza, la sua presenza in quel luogo di catarsi.
Sinossi:
Nella originale rilettura di Damiano Michieletto il mito di Orfeo ed Euridice è fatto della realtà degli uomini. I due protagonisti sono prima di tutto una coppia in crisi alla quale viene offerta una via d’uscita.
C’è qualcosa di affascinante in come Michieletto “impasta” i suoi protagonisti nella spelonca candida, inventando l’unico elemento di scena che ha memoria di fiere e spettri: una lunghissima, interminabile tela nera con la quale crea il sostrato della crisi di coppia e avvolge e svela di continuo le fasi musicali della partitura nel duetto in cui finalmente Euridice, forse perchè libera temporaneamente dal peso della carne umana, in attesa di rimaterializzarsi, dice a pieni polmoni come la pensa ad Orfeo che non può guardarla, pena la fine della storia. E al pubblico alla fine viene da dire, “ecco…meno male che non sono in quella spelonca”. Una scena faticosa, ma assolutamente preziosa, perchè invece nella spelonca-scatola prospettica ci finiamo tutti, una volta nella vita.
Trattasi di un prodotto artistico dall’elevato contenuto qualitativo sotto tutti i punti di vista. Si comincia con l’arrivo a Spoleto di ben 5 bilici di materiale scenotecnico. Così, a nostra memoria, solo lo spettacolo di Jean Paul Gaultier del 2019. Ricordiamo che l’allestimento attuale dell’opera ha debuttato in prima assoluta a Berlino nel 2022. Quello di Spoleto è un riadattamento scenico.
Una solidissima Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretta da Antonello Manacorda, finalmente in buca (M° Fischer, capito?), produce un suono che dal Loggione, dove il giornalista di campagna si trovava per scelta, è risultato di una rotondità meravigliosa.
Un applauso convinto al Vocalconsort Berlin, teutonici coristi, quanto basta per produrre una vocalità dalla resa rigorosa quanto affascinante.
Eroico il Controtenore Raffaele Pe–Orfeo, che Michieletto fa muovere incessantemente dall’inizio alla fine costringendolo ad uno sforzo fisico, mentre canta, che sfiancherebbe un Mustang nordamericano. Pe, è un artista di assoluto livello che guadagna l’entusiasmo degli spettatori del Teatro Nuovo che lo applaudono senza sosta.
Molto brava anche la soprano Nadja Mchantaf-Euridice, che ha necessità di mediare tra la sua naturale bellezza e delicatezza con il carattere di una Euridice molto tormentata e anche un po incazzata.
Susan Zarrabi e Josefine Mindus– Amore, efficaci nella loro parte e con vocalità sempre all’altezza.
Dieci minuti di applausi nel Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti soldout per entrambe le repliche (inclusa quella di oggi 6 luglio).
Al termine dell’esecuzione, spazio al Premio della Fondazione Cassa di Risparmio di Spoleto consegnato a Damiano Michieletto per i suoi meriti innovativi nel campo delle regia d’Opera.
Foto saluti finali e Premio Carispo: Tuttoggi (Carlo Vantaggioli)
Foto di scena: Festival di Spoleto