Spoleto

Festival di Spoleto, Baùbo compie il miracolo del “terzo tempo” | Il ritorno, felice, di Jeanne Candel

Io sono non so chi, muoio non so quando. Sono sorpreso di essere così felice“. Il conosciuto epitaffio pronunciato dal teologo Martinus Von Biberach, vissuto in Germania ad Heilbronn nel 1400 (di lui si sa solo la data certa di morte, 1498) è la firma autorevole sulla piece Baùbo, nuovo esperimento di Teatro musicale, con il quale Jeanne Candel torna al Festival di Spoleto dopo la sua copiosa prima apparizione del 2022.

Tutto il lavoro messo in scena nel sempre affascinante e post-atomico spazio teatrale di San Simone prende spunto da un incontro, quello tra Demetra dea della fertilità e la vecchia sacerdotessa Baùbo. E l’antefatto fondativo sta nella condizione della dea, in preda a un triste stato di smarrimento dopo il rapimento della figlia Persefone da parte di Ade, motivo per cui la stessa causerà il drammatico prosciugamento della terra coltivabile. La vecchia sacerdotessa Baùbo, che la sa lunga, le restituirà il sorriso sollevandosi le vesti e mostrandole il sesso. Demetra scoppia in un riso liberatorio e accetta di nutrirsi di nuovo. Il resto del mito genererà poi il ciclo delle stagioni.

Su questo canovaccio si innesta tutta storia legata al più classico, sempiterno e consumato dei dolori, la perdita di chi si ama e non solo intesa come scomparsa fisica. La Candel, lo ha detto in più occasioni, considera questo lavoro come un ragionamento articolato sul concetto di morte e sulle deviazioni incredibili-a volte assurde- del modo in cui il “dopo” si manifesta, proprio come quando per Demetra tutto cambia nel momento in cui vede il sesso della vecchia sacerdotessa. “Nei momenti più bui e oscuri della nostra vita, la vita trova sempre una strada”, chiosa la regista di Baùbo.

E la felicità di Von Biberach davanti all’inconosciuto, l’invisibile, alla condizione di essere con un piede di qua ed uno di la, diventa immediatamente comprensibile. Ed è per questo che può e deve essere considerata la “firma” del nuovo lavoro della Candel.

Anche il Teatro trova sempre una strada…

Mai piece teatrale poteva stupirci di più come invece è accaduto con Baùbo. Attendevamo con una certa curiosità il ritorno della regista francese a Spoleto. Non solo per rivedere i costumi oggetto della coproduzione con il Festival dei Due Mondi, ma soprattutto per avere una sorta di terzo tempo di stampo rugbistico con la regista e autrice, che nel 2022 riuscì a sorprenderci – e quasi sempre in negativo- con due piece controverse come Demi Véronique e Le Crocodile trompeur/ Didon et Enée,

La nostra memoria, tuttora dolorosa, di quell’evento è legata come in Baùbo alla perdita di una amata fetta biscottata che fuggiva dalla scena di Demi Véronique in preda al panico provocato da una condizione drammaturgica postapocalittica in cui l’ansia di chi guardava si mescolava a risate isteriche e sbadigli da lunga attesa.

Eppure ieri pomeriggio, 30 giugno, è bastato uno sguardo profondo al sesso di una vecchia sacerdotessa e la voglia di vivere è tornata! (denunciamo alla Protezione Civile chi fa battute, sia chiaro).

Un sesso che non era fisico, materico, ma che si è manifestato per noi nel consueto prologo con cui Jeanne Candel introduce molti suoi lavori. Questa volta un dialogo di una profonda e sconclusionata tenerezza tra una donna che parla una sorta di lingua slava alla Frate Salvatore de Il Nome della Rosa, mentre il compagno che gli sta a fianco, traduce pieno di comprensione per la sua donna, intabarrato in una pesante giacca a vento, presagio della sua imminente partenza definitiva che di fatto avverrà di lì a poco.

Questa epifania, anche personale- lo diciamo senza nasconderci- ci ha aperto gli occhi proprio come Demetra davanti al sesso di Baùbo. E la via del teatro ha preso una strada tutta diversa. Esattamente dove la consueta guitteria e confusione caotica di scena, che tanto piace a Jeanne Candel e ai suoi “Bellini di Francia”, è diventata all’improvviso il tumulto animico di chi deve arrampicarsi su qualche parete liscia per riemergere.

Miracolosamente, nel terzo tempo di Candel, tutto è diventato chiaro ed anche interessante. e gli escamotage scenici, pur molto circensi, tornano utili per una compartecipazione di certi sentimenti e di certe enormi difficoltà del vivere e del comprendere.

Imprevedibilità e giuste dosi…

Se un prologo di coppia ci ha onestamente commosso, ci ha ovviamente molto surriscaldati la trasformazione di Baùbo in una sorta di Jehanne Darc (Jeanne Candel in persona) con secchio delle pulizie, padelle, pala e maglia di ferro in testa che apostrofando il pubblico di Spoleto mette in scena la decantata performance da circo in cui l’offerta del sesso nudo, diventa la salvifica soluzione della vita. Manco a dirlo il sesso nudo non sarà mai quello autentico della regista Candel ma una bella fotocopia, anche mezza sbiadita, de L’Origine du monde di Gustave Courbet (1866).

Ma l’imprevedibilità delle regie di Candel è proverbiale. “Il mio non è un teatro di testo, ma un teatro di immagini e movimenti…qualcosa di molto fecondo. Quando creo, mi piace la vertigine del rischio di andare verso ciò che non conosco”, ipse dixit. Tuttavia Baùbo è stata una esperienza molto adatta ad un Festival come quello di Spoleto. La giusta dose di tutto. Incluso l’assurdo. E provare l’ebrezza del ritorno alla vita da uno sguardo è cosa poco adusa ai più. Eppoi si dice male dei Voyer…

Musiche interessanti, opera di Heinrich Schütz (1585 – 1672), tra i maestri del barocco tedesco, e attori-musicisti di una levatura sorprendente. Come quella dei due protagonisti della storia di coppia, Thibault Perriard, magnifico percussionista peraltro e Pauline Huruguen, tagliata su misura per la parte. Ensemble musicale sotto la guida di Pierre-Antoine Badaroux, anche lui in scena con sax e armonium a pedali. E voce sicura e molto bella, di una morbida rotondità, come quella del mezzosoprano Pauline Leroy.

Io sono non so chi, muoio non so quando. Sono sorpreso di essere così felice“. E chi l’avrebbe detto?

Foto: Festival dei Due Mondi