“Abundandis ad adbundadum…”, sosteneva Totò nella celebre scenetta della lettera in un film degli anni ’50, dove la dotta citazione in latino maccheronico serviva a far capire al destinatario della missiva che si faceva sul serio e che non c’era nessuna tentazione di provincialità nel contenuto da inviare.
E chissà che un messaggio similare non sia stato anche quello che la Direttrice Artistica del Festival dei Due Mondi di Spoleto, Monique Veaute, ha inteso lanciare ieri, 24 giugno, nella serata della prima della 65^ edizione.
Perché chi è venuto a Spoleto ieri non si è trovato difronte un solo spettacolo inaugurale (come da tradizione ultradecennale), ma ben sei, tutti più o meno incastrati in modo tale che chi avesse voluto, avrebbe potuto ubriacarsi a puntino di Festival, e senza pentimenti.
E anche in questo caso ci troviamo difronte ad un tabù che crolla. Dopo il Jazz in piazza Duomo, ora siamo alla smitragliata delle prime.
La prima delle prime in assoluto è lo spettacolo di realtà virtuale di Blanca Li Le Bal de Paris, che ha dato fuoco alle polveri alle 11 del 24 giugno per poi proseguire con i concerti delle 12 con l’orchestra di Budapest, a seguire l’attesa première delle 19,30 di Piazza Duomo The Passion of Ramakrishna, e quasi contemporaneamente, alle 19,45, nel rinnovato Auditorium della Stella, alza il sipario L’Appuntamento, ossia la storia di un cazzo ebreo. E se non se n’è avuto abbastanza a San Simone va in scena quello che la direttrice artistica del Festival considera come “un nuovo modo di fare l’Opera”, ovvero Le Crocodile Trompeur – Didon et Enée.
E infine, a chiudere l’orgiastica primazia della “prima” più affollata del mondo ecco l’atteso e anche per qualche verso travagliato, Le Sacre du printemps – Common Ground(s) di Pina Bausch che apre il sipario alle 21,30 al Teatro Nuovo.
Il povero cronista della pagina culturale si sarebbe dovuto fare in 6 per poter offrire tutte le novità della casa, ma alla fine la tradizione di Piazza Duomo è quella dal richiamo primordiale più forte, ed è di questa che vi raccontiamo.
In più di una occasione ci siamo presi la briga di argomentare sul fatto che moltissimi spettatori a volte si lasciano andare a commenti ingenerosi su ciò a cui stanno assistendo senza avere le adeguate informazioni su autori, contesti e genesi che hanno portato alla realizzazione dello stesso.
Se ci regalano un biglietto, si dovrebbe usare la cortesia di ringraziare e magari con calma approfondire. Ma se la scelta è autonoma, e il biglietto ce lo compriamo, non si riesce a capire il perché ci si debba fare del male andando a vedere cose che poi si criticano apertamente per mancata conoscenza dell’autore.
E’ il caso di The Passion of Ramakrishna di Philip Glass che ha sorpreso molti degli appassionati presenti in Piazza Duomo per la assoluta qualità compositiva rispetto al noto minimalismo (in buona compagnia con con Steve Reich, La Monte Young, Terry Riley, John Adams) della produzione di Glass e per la capacità di assorbire il testo in un crescendo emozionale di rara intensità.
Mentre lo stesso concerto, per altri spettatori, è stato di una noia mortale. Ora, che esistano sempre due anime nei fatti della vita è un concetto assodato. Ma che si passi dal capolavoro alla noia mortale senza nemmeno passare dal dubbio su cosa avesse voluto intendere la musica di Glass, ce ne corre.
Ma Spoleto è in grado di scatenare dibattiti anche più focosi.
Di Glass si può dire di tutto e di più ma forse due o tre sono i passaggi che si possono ricordare per comprendere la qualità e la capacità di comporre musica uscendo da ogni schema precostituito su cui abbandonarsi: il capolavoro assoluto della colonna sonora di Kooyanisquatsi (1982) e le collaborazioni con Ravi Shankar e Brian Eno. Mentre la acclamata produzione musicale per il teatro lo porta alla collaborazione con Bob Wilson per la prima opera (una composizione che successivamente Glass identificherà come la prima di una trilogia di ritratti), “Einstein on the Beach“ (composta nel 1975 ed eseguita per la prima volta nel 1976), centrata sulla figura di Albert Einstein.
Il rapporto di Glass con Ravi Shankar lo porterà addirittura alla conversione al buddismo, mentre con l’assoluto minimalismo-ambient di Eno si arriverà anche alla composizione della celebre quanto curiosa raccolta di Music for Airports. Vera ed autentica musica ambientale per aeroporti!
Le basi di Glass però sono legate agli studi su J. S. Bach fatti nei primi anni ’60 a Parigi con Nadia Boulanger.
E non è un caso che l’apertura del concerto di ieri in Piazza Duomo sia stata dedicata proprio a Bach ed alla sua Suite per orchestra n. 4 in re maggio- re BWV 1069.
Chi ha buone intenzioni, dal punto di vista intellettuale, ha avuto tutti gli strumenti per poter apprezzare lo sviluppo musicale di un autore come Glass. Leggere la sua autobiografia scritta nel 1987 “Music by Philippe Glass” può essere un viaggio affascinante in un contesto creativo quale è stato tutto il 30ennio americano, dalla fine degli anni ’50 ai primi anni ’90 del secolo scorso.
E le tracce inequivocabili della tessitura musicale di Glass sono evidenti anche in The Passion of Ramakrishna, soprattutto nel Prologo e nella Prima Parte, in special modo nell’utilizzo di fiati ed archi apparentemente contrapposti. E sorprende e rende tutto molto più affascinante del plausibile, l’utilizzo del coro come voce del mistico Ramakrishna ormai prossimo alla fine della sua vicenda terrena, che invoca la consapevolezza come veicolo di trasizione ai mondi spirituali.
Dove eseguire meglio una simile composizione se non in Piazza Duomo dove il sacro e il profano, il bianco ed il nero, il materiale e l’immateriale, convivono senza soluzione di continuità da tempi immemorabili?
Ivan Fisher e la Budapest Festival Orchestra sono in un rapporto quasi simbiotico e lo si capisce meglio in questo secondo anno di presenza festivaliera. La qualità esecutiva è sempre di alto livello e Fisher “dirige come parla”, parafrasando il detto locale del “parla come mangi”.
Chi invece ha entusiasmato oltre ogni dubbio la platea di Piazza Duomo è stata la giovanissima soprano Maria Stella Maurizi, solista nel ruolo di Sarada Devi, moglie di Ramakrishna. La Maurizi è fresca vincitrice del Concorso Comunità Europea del benemerito Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto. Chiamata al prestigioso debutto al Festival e per di più in Piazza Duomo, Maria Stella Maurizi ha dimostrato un carattere e una sicurezza commovente. Un timbro di voce adatto e squillante, senza usare toni e volumi eccessivi, misurata e ligia alle indicazioni del M°Fisher con una dizione scandita e chiara (il testo era in inglese). Una sorpresa inaspettata e lusinghiera che promette grande sviluppi.
Così così, al limite dall’afono, il baritono Peter Harvey che ha come scusante dalla sua il fatto di essere stato chiamato all’ultimo minuto per una sostituzione. Piazza Duomo, nonostante una amplificazione che secondo il nostro parere ancora non riesce ad essere il massimo della garanzia tecnica, richiede un certo volume esecutivo che Harvey non ha utilizzato.
Infine fa uno strano effetto ascoltare la Suite di J.S. Bach eseguita in piazza Duomo. La prima impressione è di una dispersione delle intenzioni bachiane tra il garrire indiavolato delle rondini birichine e una certa cattiva percezione del suono (causa sempre la nostra amplificazione incerta). Salvo poi riconoscere che si è davanti ad un capolavoro fondamentale della musica e che le evidenti difficoltà ad accettare un suono mortificato possono persino essere un prezzo onesto da pagare. Ma, come detto, avremmo ascoltato con più soddisfazione la suite in un ambiente teatrale al chiuso. Sensazione confermata anche da alcune voci autorevoli presenti in piazza ieri sera.
Se The Passion of Ramakrishna è stata una scelta molto ben architettata, non altrettanto si può dire di quella di “striminzire” un appuntamento percepito come evento, tra la bulimia di altri 5 spettacoli nel giorno dell’inaugurazione del Festival.
Siamo nel campo dei pareri ovviamente, ma poiché qui non influisce solo e unicamente la scelta artistica, forse è il caso di analizzare l’aspetto organizzativo e di immagine della kermesse. In un caso specifico poi, quello tra piazza Duomo e Auditorium della Stella c’era ieri una clamorosa sovrapposizione, motivo per cui nei giorni scorsi sono stati fatti alcuni urgenti aggiustamenti di orario negli spettacoli in programma. Chi poi avesse voluto passare da Piazza Duomo al Teatro Nuovo lo avrebbe dovuto fare con una certa fretta per evitare di entrare a spettacolo iniziato. Ed in ogni caso non si capisce perché qualcuno debba correre per andare a vedere spettacoli che paga se questi non sono posizionati agevolmente. L’unica soluzione infatti è quella di non andare ad uno dei due. O anche più di uno! Morale, incasso incerto e teatri dimezzati di presenze.
E la conseguenza più evidente di una simile scelta è la visione della piazza in termini di pubblico.
Quando si viene al Festival, per diletto o a maggior ragione per lavoro, sarebbe cosa buona e giusta analizzare tutti gli aspetti in gioco. Il primo è che la “cartolina” più conosciuta della città e non solo del Festival è quella che ritrae Piazza Duomo stracolma all’inverosimile per il concerto di chiusura della manifestazione (max capienza circa 2.500 posti nella foto di una delle prime edizioni a guida Giorgio Ferrara). E questo in tutte le edizioni di cui abbiamo memoria (più di 40 dall’età della ragione).
Se poi, in ordine a Spoleto65, la nuova immagine di Piazza Duomo alla prima delle prime è quella delle foto sotto, allora si può dire che si è in presenza di un marchiano difetto di comunicazione.
Poi, per carità le foto si possono fare in tanti modi, inclusi quelli che coprono i vuoti e allungano a dismisura le teste. Ma“ccà nisciuno è fesso! (Lo diceva sempre Totò- Foto ufficiali Festival dei Due Mondi)
Se poi qualcuno ci vorrà far sapere le presenze paganti di Piazza Duomo di ieri, al netto di inviti, omaggi, regali e semplici liberalità munifiche, il mondo dell’informazione ne sarà riconoscente. Intanto ci limitiamo a registrare una cifra intorno ai 1300 posti registrati in pianta e al lordo degli extra detti prima, e sempre con il beneficio dell’inventario e pronti a rettificare (l’Ufficio Stampa del Festival su questo è molto puntiglioso).
Per il momento ci limitiamo a registrare alcuni fatti (questi verificati in presenza) nel riempimento degli altri spettacoli-prima del 24. Il più clamoroso sarebbe quello di San Simone (Le crocodile Trompeur) dove a fronte di una capienza di 120 posti, pare che si sia rimasti al di sotto delle 60 presenze. Difficoltà, almeno nei primi momenti dello spettacolo , alla attesa prima de Le Sacre du Printemps, dove il pubblico sarebbe arrivato alla spicciolata dopo la fine del concerto in Piazza Duomo iniziato con un certo ritardo.
Stessa situazione di riempimento mancato alla prima de L’appuntamento, ossia la storia di un cazzo ebreo dove, solo per il titolo, si era sollevato un certo chiacchiericcio scandaloso. Di 110 posti disponibili pare che ci sia stato un riempimento poco sopra il 50%.
Nessun problema per Le Bal de Paris di Blanca Li che, complice anche la formula di fruizione che prevede gruppi di una decina di persone per volta, ha avuto un afflusso costante. E questo anche per i concerti delle 12 su musiche di Menotti.
Quale possa essere il motivo di un simile spacchettamento di prime non è dato sapere e temiamo rimarrà un mistero glorioso.
Ma la scelta di eseguire l’Oratorio di Phlip Glass rimane una scelta coraggiosa e indovinata. Peccato solo il tafazzismo di mortificarla da soli.
Ci si può sempre riprovare del resto!