Carlo Vantaggioli
Che Spazi Altri fosse il vero “evento” di fine anno lo avevamo già accennato in appendice all’articolo di presentazione del programma studiato dall’amministrazione comunale per accompagnare la città ed i suoi visitatori tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014.
Il perché è intuibile dalla natura stessa della proposta: non un momento musicale, nè di teatro o di arte varia, bensì una installazione. E che installazione oltretutto! Una sorta di operazione virale che occupa e ridisegna spazi, angoli e piazze principali della città. Colori inconfondibili, nazional-popolari, linee tese da far invidia a Elio e le sue Storie, utilizzo di materiali post industrial (memoria della famosa Food Gathering In Post-Industrial America 1992 del sacro Frank Zappa), scarti di produzione appena ingentiliti da groppuscoli di panzè che sembrano sperdute, mimetizzate, tra il resto dell’installazione.
Pallets, coperti da una pietosa mano di bianco e che dovrebbero trasformarsi in qualcosa d’altro rispetto al trucido “bancale”, occupano imperiosi i confini di questo spazio rinnovato o anche, se si vuole, morto e riesumato. Sopra di essi pseudo-cuscinoni fatti coi sacchi di quelli che si usano per il grano e anche per la raccolta delle olive tenuti fermi al bancale da un doppio giro di spago, tra antifurto dissuasore e tecnica antica per evitare che il vento se li porti via. Un parente, di professione muratore, ci raccontava sempre la prima raccomandazione che gli venne fatta agli inizi della carriera, da manovale “Portati sempre in tasca una roccia di spago e una di fildiferro…”. Ecco lo spago di Ofarch ha il sapore dell’antico, della povertà raccapezzatrice che tutto arrangia, cosi che tutto funzioni.
Sulla funzione del cuscinone non c’è molto da dire se non che, visto il tempo inclemente e la nebbia, sono stati zuppi d’acqua per la maggior parte del tempo, sicchè anche a volerci sedere sopra occorreva la muta da sub. Ma in quel caso sarebbe cambiata anche la prospettiva dell’installazione e invece di “Spazi Altri” si sarebbe dovuta chiamare “Abissi altri”.
Nel tableau affisso ai tubi innocenti di un minilabirinto, unica opera strutturale verticale dell’installazione spoletina, viene spiegata la ratio della proposta dove il senso dell’operazione sta tutto nel titolo Spazi Altri. Un po’ come il simpatico tormentone “diversamente…” a cui si aggiunge di tutto: diversamente ingegnere, diversamente fascista, diversamente architetto, diversamente comunista, magari! Ma la lettura in verità offre altri spunti di meditazione, a tratti anche trascendentale.
Nella prima parte del tableau si accenna alle piazze come luoghi di passaggio, non vissuti, non-luoghi dove l’umanità è posta ai margini e dove i parcheggi sono una finta prospettiva di accessibilità. L’alternativa dunque è la proposta di Ofarch, che trasforma il vuoto in pieno, un luogo dove l’umanità è privilegiata e dove le persone “cittadini-pedoni” sono i veri proprietari. Se non fosse chè, come ci confermano tanti affezionati avventori di piazza della Libertà, le persone che si sono avvicinate al “vuoto-pieno” di Ofarch, hanno avuto sentimenti contrastanti: alcuni incazzati neri perché non c’erano i parcheggi, altri perché alla fine non si potevano sedere sul cuscinone zuppo, taluni impauriti dalla mancanza di illuminazione e timorosi che gli sbucasse fuori un Minotauro dal minilabirinto e infine talaltri, diversamente ecologisti, sinceramente dispiaciuti per le panzè sperdute in contenitori grigi come il catrame in piccole pozze di terriccio. Più che un vuoto-pieno, un Horror Pleni come descritto sapientemente dal M° Gillo Dorfles nell’omonimo testo sull’arte.
Ma il tableau riserva ancora soprese, scorrendo ancora il testo, allorquando si incappa in brillanti rimandi come “Lo spazio eterotipico di Foucault”, ovvero un luogo al di fuori di altri luoghi che diventa contestazione dello spazio reale in cui si vive. E in effetti se lo scopo è contestare, molte bestemmie sono volate per l’occupazione simbolica della piazza, una sincera e democratica forma di contestazione “nostrale”. Proseguendo ci si imbatte in una descrizione evocativa, “E’ lo spazio dei microcosmi, dei giardini segreti sotto forma di tappeti di verde protetti da geometriche sedute….”. E in effetti, come si può vedere dalle foto, ci sono pezzi di tappeti sintetici di color verde, tagliati a misura, del tipo di quelli che si mettono davanti all’ingresso di casa per pulirsi le scarpe prima di entrare, un rimando al giardino segreto di natura mesopotamica o rinascimentale che dir si voglia, piuttosto evidente, a quanto pare! Ovviamente zuppissimo pure questo.
Per concludere poi con un sospeso illuminante “Architettura Povera o povera architettura…”.
Ecco nel dilemma duale, di fattezza quasi arcimboldesca, microcosmica ed etoritipica, risiede la natura dell’intera installazione di Ofarch. Prendiamo invece atto che gli Eventi di Fine anno a Spoleto, nell’anno del Signore 2013, segnano una svolta messianica nell’azione amministrativa della città, e nella prospettiva dell’arrivo di un demiurgo che tutto sistema (un commissario prefettizio? ndr), si inizia a creare luoghi e spazi in cui ritrovarsi per assistere più che ad un Dj-Set, ad una vera e propria riunione di preghiera prima dell’Apocalisse. Finis Mundi! E così sia.
Anche se un dubbio ci attanaglia: e se avessero consentito di lasciare per il periodo invernale i vari spazi allestiti dai bar all’aperto e normalmente usati per le chiacchiere di piazza? Quelli sarebbero stati anch’essi eterotipici e microcosmici? In dubis abstine.
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