Festival dei 2Mondi

Due Mondi, polemiche sul programma | Nostalgia canaglia o coda di paglia?

“Nostalgia, nostalgia canaglia che ti prende proprio quando non vuoi ti ritrovi con un cuore di paglia…”. In verità, visto che stiamo per parlare di un certo genere di spoletini nei versi della famosa hit del duo Albano e Romina, il finale della strofa andrebbe modificato con “ti ritrovi con la coda di paglia…”.

Insomma ticchete e martella, rieccoci qui a commentare con gusto l’ondata di sdegno che ha preso alla gola i soliti noti, all’apparire del programma del 60° Festival dei Due Mondi. Ci sarebbe da scrivere un pamphlet o meglio un’operetta alla Offenbach, questa sì commissionata dal Due Mondi, per evidenziare meglio i contorcimenti dolorosi, le scene drammatiche dei pugni sul petto e gli inginocchiamenti con le braccia al cielo alla “Ei fu siccome immobile…”.

Responsabile di simile tragedia epocale è Giorgio Ferrara, il direttore artistico del Festival, che ogni anno, da 10 a questa parte, ha prodotto una manifestazione che è stata né più né meno lo specchio della società in cui viviamo. Una operazione che è stata sempre sostenuta dai vari ministri dello spettacolo succedutisi, ergo da chi comanda, senza che il budget venisse mai meno. Anzi l’erogazione dei fondi assegnati a Spoleto, sotto la gestione Ferrara, è stata resa più solida e sicura in termini di meccanismi ministeriali.

Solo per questo, nell’Italia dei Teatri Stabili con milioni di perdite, ma anche dei finanziamenti colossali a manifestazioni discutibilissime, l’operazione Spoleto è un miracolo di correttezza. Conti in ordine e fornitori pagati, se i soldi ci sono le cose si fanno, altrimenti no. Sono lontani i tempi degli scioperi e delle proteste dei dipendenti contro Francis Menotti che in questo senso, oltre a non rappresentare un degno esempio di continuità culturale dell’augusto genitore, veniva tollerato solo da uno sparuto gruppo di “beneficiati” che ancora oggi tentano di officiare messa con il vino che sa di aceto. Fu un periodo tremendo, abbandonati dalla comunicazione, dal pubblico e da Dio in generale, come tempo fa ricordava (non smentito dai criticoni) anche Dario Pompili, vice presidente della Fondazione Festival (CLICCA QUI)

Non potendo, o non volendo, discutere dunque sul lato squisitamente organizzativo, i nostri turiferari si mettono a disquisire di spettacoli e sulla loro natura. E così, per Spoleto60, salta agli occhi il peccato mortale di aver invitato Fiorella Mannoia, quello di riportare in Piazza Duomo (manco fosse il catafalco immodificabile del fu-Menotti) un rappresentante internazionale della musica elettronica, Henrik Schwarz, di aver scritturato la compagnia di atleti-ballerini di Kung Fu di Jackie Chan, far suonare le bande militari in città, ed infine il peccato dei peccati, quello di aver offerto nuovamente il palcoscenico ad Adriana Asti, consorte del Direttore artistico, sulle cui qualità di attrice e sugli spettacoli in genere fin qui fatti non abbiamo avuto il piacere di leggere alcunché.

E nessuno entra nel merito degli spettacoli. I novelli Torquemada si guardano bene dal dire, durante le loro discussioni animate nei blog o nei corsivi pensosi, cosa c’è di profondamente sbagliato artisticamente in quello che andremo a vedere. E del resto non lo hanno fatto nemmeno negli anni precedenti. Ci sono solo testimonianze scritte di NO a priori. Non ci ricordiamo di aver letto una critica ragionata, una analisi anche solo emozionale, niente di niente sugli spettacoli di questi ultimi 10 anni. Si è contro la nuova gestione per professione di fede al fondatore, il re dei re.

Ferrara, lo abbiamo scritte molte volte, non è infallibile ed ha, come tutti, pregi e difetti. Ha fatto scelte discutibili e ne ha indovinate altre di grande interesse. I primi anni sono stati durissimi e chi, come noi, andava a teatro si ricorda spettacoli con nemmeno 10 persone paganti. Ma il risultato è che nel corso di questi 10 anni Spoleto ha potuto assistere ad un crescendo indiscutibile di interesse intorno alla manifestazione ed i teatri sono tornati a riempirsi.

Mettersi a discutere se è il generone romano o i miliardari americani che arrivano a spendere soldi qui è davvero una cosa di basso livello intellettuale. Va bene tutto, ma che ora ci mettiamo anche a disquisire dottamente se il denaro profuma di Chanel o di pecorino ci sembra davvero troppo.

Non è un caso che tutti i commentatori afflitti da nostalgia canaglia si accodino al corsivo di Valerio Cappelli (20 righe in croce), critico del Corriere della Sera, che con Ferrara sono 10 anni che non va d’accordo per motivi che non è semplice indagare.

Personalmente, avendo in gioventù lavorato all’ufficio stampa del Festival quando il capo era il grande Mario Natale ci ricordiamo bene come i critici erano coccolati e accuditi di tutto punto affinchè l’inchiostro scorresse a fiumi e possibilmente, a favore. Ma in quei tempi il gioco era facile, perché gli sponsor erano munifici. Indubbiamente a Spoleto si stava bene, ma erano pochi a goderne. Del resto Gian Carlo Menotti, per sua natura, era un principe rinascimentale a cui ci si poteva solo accodare, e chi scrive può ben dirlo per averlo conosciuto personalmente ed anche sul lavoro.

Chi si ricorda di quante volte è stato detto a gran voce, negli anni dei Menotti, che gli spoletini non andavano a teatro e che il Festival era solo per pochi (sia per le scelte elitarie che per i prezzi dei biglietti)? Almeno su questo la memoria non dovrebbe fare cattivi scherzi. Certe scelte, che noi stessi abbiamo descritto da subito come Pop, aiutano a coinvolgere un tessuto sociale che altrimenti sarebbe escluso. Le bande militari hanno sempre fatto i pienoni. Ed allora ci si deve domandare il perché, invece di osservarsi compiaciuti l’ombelico. La Mannoia in Piazza Duomo è un pienone assicurato e in questo tempo e luogo a nessuno è più consentito dire “che c’entra con il Festival”. I nostri inquisitori domenicani dovrebbero azzannare anche Carlo Pagnotta allora che invita con nonchalanche Massimo Ranieri e la stessa Mannoia a Umbria Jazz. Ma non ci pare di aver mai sentito un pigolo in tal senso.  E allora sarebbe il caso che la nostalgia canaglia ci stringesse alla gola per altri motivi. O magari sarebbe il caso che esistesse un progetto alternativo invece  del solito profluvio dei parolai ebbri di se stessi.

Su una cosa ha sbagliato, strategicamente, Ferrara quest’anno ed è che non ha riproposto un lavoro di Menotti in occasione del decennale della morte, e si badi bene non una semplice commemorazione, ma esattamente un’opera di Gian Carlo Menotti in cartellone.

Ma da questo a leggere che al Festival mancano le gare di ruzzolone, quando poi quest’anno Spoleto60 costruisce un Don Giovanni che andrà in trasferta al Festival di Cartagena e in alcuni teatri italiani, commissiona un Requiem ad una giovanissima compositrice Silvia Colasanti, per omaggiare le vittime del terremoto, riporta a Spoleto una delle registe italiane più osannate dalla critica teatrale come Emma Dante, invita il duo Ricci/Forte veri autori di culto per le nuove generazioni, scrittura (dopo 3 anni di caccia) la compagnia brasiliana Grupo Corpo, storico ensemble di danza contemporanea, mette in scena l’opera lirica in un atto di Alberto Colla (data di nascita 1968) Delitto e dovere, convince Bob Wilson a fare da trainer ai giovanissimi allievi dell’Accademia Silvio D’Amico, e poi Bolle la Abbagnato insomma tutto questo e molto altro, rende giustizia di alcuni luoghi comuni scoccati come frecce dall’arco dei nostri giustizieri della notte.


Festival Due Mondi, presentata al Mibac Spoleto60 | Avanti Pop, arriva il Kung Fu di Jackie Chan


Se invece di essere ostinatamente autoreferenziali certi politici e certi critici con l’elmetto muovessero un po’ di più le terga dal comodo giaciglio e si prendessero l’incomodo di andare a teatro a vedere qualcosa per poi scriverne, non staremmo qui a discutere se una cosa è buona o cattiva a priori.

Ed inoltre per fare le nozze con i funghi ci vuole il contante. Gli anni ’50 e ’60, i miliardari americani, e gli enti nazionali che pagavano la qualunque, tanto poi erano gli italiani a rifondere (vedi esperienza Alitalia che fu sponsor munifico di tante edizioni festivaliere menottiane), non ci sono più e fare i conti con il presente per organizzare un futuro si spera migliore, è un tipo di approccio che ci interessa di più.

Camminare sempre con la testa rivolta all’indietro essendo ostinatamente attaccati a modelli passati, con la paura di sbagliare, è qualcosa che blocca qualsiasi forma di sviluppo. Ferrara non sarà un innovatore, ma di certo è stato un ottimo medico di famiglia, ha ripreso un Festival moribondo e lo ha rimesso in piedi. Sta camminando e con un po’ di allenamento potrebbe anche a breve correre i 100mt. Ad ognuno la sua responsabilità oggettiva e morale. Inclusa la Fondazione che giustamente non si deve occupare di scelte artistiche ma della correttezza della gestione. Se non ci sono buchi di bilancio e il pubblico è soddisfatto e torna, allora vuol dire che ognuno ha fatto bene il suo lavoro. Magari la prossima volta però un cenno al Direttore Artistico sulle ricorrenze importanti, questo si che va fatto.

Alla fine, chi fà sbaglia, come si sa. E allora meglio più cappelle che Cappelli (Valerio eh…).

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