Luca Biribanti
“E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame d’amore, dell’amore di corpi senza anima” con queste parole Pier Paolo Pasolini esprime il suo bisogno d’amore in “Supplica alla madre”, la stessa fame dei corpi che si sono esibiti sul palcoscenico del teatro “Secci di Terni” per un “Peu de tendresse, bordel de merde”, secondo atto della trilogia del coreografo Dave St.Pierre. Una fame d’amore atavica, convulsa, esasperata, ma anche ironica e burlesca, cercata con il corpo e per il corpo. Niente scenografia, solo lo spazio del palcoscenico dove i corpi si respingono, si cercano, si lasciano andare al fluttuante piacere dell’esuberanza, senza barriere. Non c’è neanche la quarta di barriera, quella che separa pubblico e palcoscenico: i ballerini interagiscono, scendono dal palco, si mescolano tra il pubblico, strusciando il loro corpo nudo sugli spettatori, cercano un contatto, vogliono toccare e comunicare. Il corpo è uno strumento, non importa che sia di uomo o di donna, e si muove in un girone dantesco o in un paesaggio boschano; nulla è definito, può essere anche un paradiso, dove l’orgasmo è il premio supremo, o l’atto di liberazione dalla solitudine.
A dirigere la scena c’è una donna che assomiglia al Vernacchio felliniano: mostra la sua compagnia in uno spettacolo dell’umanità. Annusare un pene o una vagina, masturbarsi con una torta, sono gesti di disperazione e di dolore che risolvono l’incapacità di comunicare tenerezza. Se doveste sentire, o leggere, che lo spettacolo è volgare, beh, non dategli retta; il nudo è sublimato in arte e commozione, il finale è uno strappo al cuore. Il palcoscenico viene innaffiato con acqua lasciata cadere da bottiglie e i corpi si muovono scivolando sul pavimento. Un piccolo stagno dove si muovono pesci appena pescati, strappati alla propria essenza, così come il corpo che riacquista la sua essenza nella nudità, come esorcismo all’ossessione di doversi coprire, o doversi scoprire per ‘dovere’. Il corpo è interpretato come esultanza, gioia dionisiaca di adesione alla volontà di vivere, dove il pene e la vagina sono il coro della tragedia della solitudine umana.
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