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Da test precoci a nuove terapie, corrono studi su Alzheimer

(Adnkronos) –
Studi, ricerche e nuove frontiere promettenti sull’Alzheimer, dai test per una diagnosi precoce a terapie che puntano a rallentare il declino cognito. Sulla malattia neurodegenerativa – che colpisce circa il 5% delle persone con più di 60 anni e in Italia si stimano circa 500mila pazienti (dati Iss) – è un fiorire di attività scientifica spinta non solo da esigenza sociali e sanitarie, ma anche da giganteschi interessi commerciali. Ma è tutto oro quello che luccica, siamo in presenza di dati concreti o abbagliati dal miraggio di una cura definitiva?  

“Non c’è nessun miraggio perché siamo tutti consapevoli che il traguardo di una cura nel senso vero della parola è ancora lontano, ma è vero che rispetto ad alcuni anni orsono si sta risvegliando un grande interesse per la diagnosi precoce e la cura dell’Alzheimer – con questo termine vogliamo comprendere tutte le demenze, anche se l’Alzheimer è la forma più frequente, ma non l’unica – perché è un ‘pietanza’ che ha come contorno una ricaduta organizzativa ed economica imponente”. A fare il punto con l’Adnkronos Salute è Paolo Maria Rossini, responsabile del Dipartimento di Neuroscienze dell’Irccs San Raffaele di Roma.  

Ogni settimana esco sulle riviste scientifiche studi su nuovi “test diagnostici che vorrebbero scoprire la malattia prima del manifestarsi dei sintomi e che dicono che disporre di un biomarcatore (un esame diagnostico strumentale) ‘fighissimo’ cioè accuratissimo. L’obiettivo – avverte il neurologo – senza nulla togliere all’importanza scientifica di questi studi è non solo di fare una diagnosi precoce, ma anche di mettere in commercio nei canali più redditizi (ad esempio tutte le farmacie) un kit che potenzialmente ha a livello planetario centinaia di milioni di acquirenti, considerate tutti quelli con più di 50 anni. Sull’Alzheimer c’è un grande fervore e la ricerca è molto vitale (solo negli ultimi 3 anni sono stati approvati dall’Fda americana 3 anticorpi monoclonali, due dei quali però non approvati in Europa perché poco efficaci, molto onerosi e con parecchi effetti collaterali anche allarmanti”. 

Secondo Rossini, “dovremmo da qui in poi agire come è stato fatto per il vaccino Covid in cui tutti – l’opinione pubblica, le autorità politiche e sanitarie di tutti i Paesi – iniziassero a fare pressione sull’industria farmaceutica (‘Big Pharma’) per mettere da parte le finalità delle singole aziende ed unire tutte le energie su questo fronte per raggiungere un risultato tangibile di cura nel più breve tempo possibile”.  

 

“La maggioranza dei lavori scientifici che sono stati pubblicati recentemente mirano ad identificare un biomarcatore per esempio un esame del sangue, un esame di neuroimmagine, un test genetico, un elettroencefalogramma – spiega il neurologo Rossini – in grado di darci una diagnosi biologica della presenza di agenti che provocano neurodegenerazione alla base delle varie forme di demenza, prima che i sintomi compaiano. Benissimo, ma tutti questi biomarcatori per vari motivi – economici o di tempo – sono stati testati su un popolazione di anziani a rischio di sviluppare un stato intermedio di malattia che va da un invecchiamento normale del cervello alla demenza appunto. Una popolazione definita ‘Mild Cognitive Impairment (Mci) che ha notoriamente un rischio almeno 10 volte più altro rispetto agli anziani che hanno la stessa età e che nella metà dei casi dopo 3 anni di ‘follow up’ sviluppa la malattia”.  

“In sintesi, al momento della diagnosi di Mci circa la metà dei casi si troverà già in una forma prodromica iniziale di demenza che diverrà clinicamente evidente nell’arco dei 3 anni successivi, ma gli altri non avranno mai la malattia; il perché non si ammalino non è noto – avverte – ma può essere spiegato in sintesi dalla presenza di fattori di resilienza che permettono al cervello di resistere all’attacco dei fattori neurodegenerativi. Su questa popolazione ad alto rischio (Mci) si stanno espletando tanti studi che testato esami diagnostici per trovare nel sangue un biomarcatore dell’Alzheimer (incluso il progetto italiano ‘Interceptor’, all’avanguardia nel mondo in questo settore). Però questo scenario è reso confuso ed un po’ inquietante dal fatto che se si ritrovano uno o più biomarcatori presenti in una persona (chiamiamola XY) si potrà dire che XY ha una diagnosi biologica di malattia neurodegenerativa; tuttavia è noto che sino al 30% di coloro che hanno segni di malattia biologica non svilupperà mai (se seguiti nel tempo) i sintomi clinici della medesima malattia; quindi, non diventeranno mai dementi. Quindi – osserva Rossini – XY è positivo al biomarcatore ma se lo seguo nel tempo accadrà che non si ammalerà, ma nel frattempo la sua vita è distrutta sotto ogni punto di vista, specialmente se relativamente giovane, perché con il test gli è stato detto che diventerà demente. Chi più gli presterà fede? Chi gli permetterà di fare carriera? Chi si affiderà ai suoi progetti ed alle sue valutazioni?” 

“Ecco che sulla base di questi problemi c’è un grosso dibattito su questi test predittivi (sangue o altro); basta avere il biomarcatore per dire che avrai l’Azheimer? Personalmente – suggerisce il professor Rossini – gioirò quando qualche ricercatore dimostrerà un biomarcatore (o un insieme di biomarcatori sostenibili in termini di costi, organizzazione sanitaria, non-invasività ed ampiamente disponibili a tutti) serio in grado di prevedere nel 99,9% dei casi in modo corretto quelli che si ammaleranno rispetto ai falsi positivi che invece oggi sono troppo alti con i biomarcatori attualmente disponibili. Sarebbe inoltre da indagare molto di più sui fattori di resilienza che permettono a coloro che hanno il biomarcatore alterato di non si ammalarsi. L’Alzheimer e le altre demenze sono malattie che lavorano nel buio per anni o decenni prima che i sintomi si evidenzino in un continuo ‘ping-pong’ tra fattori di rischio e fattori di resilienza. Se si studiassero a fondo i fattori di resistenza si potrebbero probabilmente trovare nuove vie terapeutiche che potenziano questi fattori biologici presenti ma che non si esprimono a sufficienza in colo che si ammalano”.  

 

Tornando ai farmaci disponibili, “l’ente americano per il farmaco (Fda) ha dato l’ok a tre anticorpi monoclonali – Aducanumab, Lecanemab, Donanemab – tutti e tre ‘missili intelligenti’ che si legano e distruggono i depositi di beta-amiloide. Come detto l’Ente europeo (EMA) non ha approvato sinora le prime due (Aducanumab e Lecanumab) perché l’efficacia biologica c’è ma è modesta. La deposizione di beta-amiloide scompare ma la malattia procede lo stesso, diciamo che l’aspetto biologico e clinico non vanno di pari passo in analogia con quanto prima descritto). Inoltre – aggiunge Rossini – queste terapie sono molto onerose, costano decine di migliaia di euro. La loro erogazione avviene per via endovenosa e richiede quindi una somministrazione che coinvolge le strutture ospedaliere. Ogni due-tre mesi va fatta una risonanza per vedere se ci sono effetti collaterali, come l’edema o le microemorragie e se ci sono la terapia va interrotta. Ci sono però altri farmaci in corso di sperimentazione, alcuni ad infusione sottocutanea o per via orale, che agiscono in parte sulla deposizione di beta-amiloide e di proteina Tau ed altri agenti supposti ‘killers’ della neurodegenerazione. Siamo alla Fase III di sperimentazione e quest’anno i ricercatori apriranno i loro ‘segreti scrigni’ e sapremo l’efficacia e gli effetti collaterali di queste terapie”. 

Nel caso si trovasse una strada verso la riduzione dell’impatto dell’Alzheimer, ci potrebbe essere una cura per tutti? “Sul fronte delle terapie c’è sicuramente un problema legato ai costi molto alti di questi farmaci e lì bisogna che i sistemi sanitari si dotino di uno strumento per selezionare le persone ad alto rischio. Il progetto ‘Interceptor’ – ricorda il neurologo – che è finito da poco e di cui stiamo elaborando i dati, va in questa direzione. E l’Italia sarà il primo paese al mondo a potersi dotare di una modello organizzativo sviluppato su 19 centri dal Piemonte alla Sicilia. ‘Interceptor’ ha lo scopo di mettere a punto un panel di biomarcatori sostenibili sul piano dei costi e dell’organizzazione sanitaaria che – unitamente ai test neuropsicologici – permetterà di diagnosticare in fase precoce la malattia di Alzheimer. Inoltre, diremo qual’è la combinazione di biomarcatori più efficaci per distinguere da subito gli anziani che di fatto sono già ammalati (anche se in forma molto lieve) da quelli che non lo saranno mai”. 

Infine, il professor Rossini chiarisce come uno dei principi che dovrebbe guidare la ricerca nel campo delle demenze è quello “di allungare il periodo di autonomia dei pazienti perché è quello che chiedono le famiglie”. Fermare l’evoluzione della malattia “bloccandola alle fasi iniziali, quando i pazienti mantengono quasi tutte le autonomie del vivere quotidiano significa alleviare il peso affettivo/sociale/economico che oggi – per le forme di malattia più avanzate – grava quasi esclusivamente su familiari e caregivers”, conclude Rossini.