Un nuovo studio sulla sequenza sismica in Centro Italia del 2016 potrebbe portare elementi per capire quando si verificheranno in futuro alcuni tipi di terremoto. Dopo quello che ha portato nei giorni scorsi a scoprire la correlazione tra il sisma di Norcia e quello che nel V secolo d.C. creò danni al Colosseo a Roma, ora l’esito di un’altra ricerca è stata pubblicata sulla rivista scientifica Nature e resa nota dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv). Che ora si prepara a nuovi studi che appunto, come annuncia il presidente Carlo Doglioni, portino ad individuare zone pronte a generare un futuro terremoto.
La sequenza sismica che si è verificata nel Centro Italia dal 24 agosto 2016 – viene ricordato dall’Ingv – è legata all’estensione che coinvolge gli Appennini e misurata tramite la rete GPS in circa 4-5 mm all’anno. La sorpresa è che grazie alle nuove tecnologie satellitari è stato possibile misurare come il terremoto abbia determinato l’abbassamento di un volume di crosta terrestre almeno 7 volte maggiore di quello sollevato.
“Attraverso l’uso di dati geodetici e tecniche interferometriche satellitari applicate a immagini radar InSAR (Interferometric Synthetic Aperture Radar) – spiega Christian Bignami dell’INGV – sono state acquisite immagini che hanno permesso l’esatta misurazione dei volumi di roccia mobilizzati durante il terremoto di Amatrice – Norcia”.
Da circa venti anni i satelliti per l’osservazione della Terra permettono di studiare gli eventi sismici. In particolare, i satelliti che equipaggiano un sensore RADAR, il SAR (dall’inglese Synthetic Aperture Radar), sono utilizzati per misurare con precisione le deformazioni della superficie terrestre indotte dai terremoti. Situati su una piattaforma satellitare in orbita attorno alla Terra, i SAR permettono di ottenere informazioni dettagliate sotto forma di immagini. Applicando una particolare tecnica di elaborazione del segnale, l’Interferometria SAR (InSAR), è possibile analizzare e misurare i movimenti del suolo. “L’interferometria SAR – spiegano Christian Bignami ed Emanuela Valerio – ha permesso di estrarre l’informazione circa la distanza che ciascun punto (il pixel delle immagini) al suolo ha rispetto al SAR, consentendo quindi la misura delle variazioni avvenute nell’area ‘fotografata’ dal satellite a seguito del terremoto. È stato così possibile calcolare gli abbassamenti e sollevamenti del suolo, e i relativi volumi di roccia mobilitati dagli eventi sismici avvenuti il 24 agosto 2016 di magnitudo 6 e il 30 ottobre 2016 di magnitudo 6.5”.
I risultati ottenuti pongono un quesito molto importante: dove va a finire in profondità questa massa crostale in eccesso? Il modello prevede che nella fase preparatoria del terremoto, che può durare alcune centinaia di anni, si formino nella crosta fragile (i primi 10-15 km) alcune migliaia di microfratture legate all’estensione in corso lungo la catena appenninica e quindi la creazione di un volume “dilatato” che, raggiunto uno stato limite in cui non è più in grado di sostenere il peso delle rocce sovrastanti, il volume dilatato collassi, accogliendo il volume in eccesso che si abbassa durante il terremoto, come la richiusura di una fisarmonica.
“In particolare, grazie a questi dati – aggiunge il Presidente INGV Carlo Doglioni – è stato valutato il rapporto tra volume di roccia in subsidenza e volume in sollevamento, gettando nuova luce e conferme sul ruolo della forza di gravità nei terremoti relativi a faglie estensionali. Prossimo obiettivo è la caccia ai volumi crostali in cui lungo l’Appennino vi siano zone dilatate, pronte a generare un futuro evento sismico”.
Lo studio Volume unbalance on the 2016 Amatrice – Norcia (Central Italy) seismic sequence and insights on normal fault earthquake mechanism, autori C. Bignami, E. Valerio, E. Carminati, C. Doglioni, R. Lanari e P. Tizzani, è stato pubblicato sulla rivista Scientific Reports-Nature (qui il link).