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Coronavirus, l’azienda umbra che cuce 5 km di stoffa a settimana per fare mascherine

Il motore che gira al massimo, il portafili che rilascia chilometri di filato, l’ago che entra e esce dal tessuto come i pistoni di una sportiva lanciata a mille chilometri ora. Non è una giornata come le altre alla Medical Center Production, l’azienda di Castel Ritaldi (a pochi chilometri da Spoleto) che sta vincendo la corsa contro il tempo nella produzione di mascherine per combattere il terribile coronavirus.

Da neanche un mese la titolare Alessandra Passeri non conosce pace, specie da quando si è sparsa la voce, tra le aziende del settore ma anche tra le pubbliche amministrazioni, che l’azienda è in grado di produrre fino a 35mila mascherine al giorno. Per dare un idea della mole di lavoro, l’azienda cuce qualcosa come 5 km di stoffa alla settimana. Gli ordinativi si accavallano, in molti vogliono il suo prodotto anche se la capacità produttiva non riesce a soddisfare tutte le richieste

44 anni, un diploma da operatore della moda preso all’Ipsia di Spoleto e l’amore per il cucito ereditato dalla mamma, raffinata ricamatrice, Alessandra si divide tra il laboratorio e la casa. Anche se ormai la vita è più al lavoro, nello stabile costruito da poco dove ha voluto realizzare un paio di vani per i suoi 3 figli, così da poterli seguire meglio nei compiti e nello svago. Quando torna a casa c’è da seguire le pratiche amministrative dell’azienda del marito Claudio, co-titolare della “Di Giacomo macchine” impegnata nel settore dell’agricoltura.

Come procede la produzione delle mascherine chirurgiche?No guardi, questa dicitura non è esatta, ci tengo a precisarlo. Le normative attuali impongono la marcatura CE ma per ottenerla occorre del tempo per averla. Noi ci siamo attenuti al vigente Dpcm che va in deroga alla marcatura; per essere ancora più tranquilli le abbiamo chiamate “monouso facciale” così da non ingenerare alcun rilievo. Ovviamente abbiamo avviato le pratiche per arrivare alla marcatura CE ma non sarà per adesso.”.

Come è nata l’idea di riconvertire la produzione?Un mese fa circa il nostro capogruppo della sartoria, Fabrizio Nardi, mi ha lanciato l’idea della mascherina e ho subito detto “no!” perché già immaginavo che sarebbe stato un delirio. Pochi giorni dopo mi ha convinto e così abbiamo disegnato e realizzato il primo prototipo. Abbiamo mandato la scheda tecnica al Ministero della Salute e, trascorsi i 3 giorni del silenzio-assenso, abbiamo cominciato a produrle. Non lo avessi mai fatto….”.

Perché? Non ci faccia caso, lo ripeto come un mantra da quando è iniziata la ‘grande corsa’, sono ovviamente contenta di questa nuova impresa, della opportunità di lavoro che ne ricaviamo e della possibilità di dare il nostro contributo al Paese. L’importante è che ci sia il lavoro. Pensi due anni fa, proprio mentre ci stavamo trasferendo nella nuova sede, l’azienda che ci assicurava l’80% del lavoro è fallita dal giorno alla notte. Ho perso più di trecentomila euro, ero disperata. Ma non mi sono data per vinta. Ho detto ai colleghi di continuare il trasloco che alle commesse avrei pensato io ed infatti, dopo un paio di settimane sono arrivati i primi, nuovi clienti

Ha assunto nuove lavoratrici. “Sì da 22 che eravamo a fine febbraio oggi siamo in 30, ho fatto qualche assunzione diretta e immesso qualche lavoratrice interinale. Più una quarantina dell’indotto. In totale sono 70 le unità che stanno lavorando a questo progetto”.

A quanto ammonta la produzione? “Siamo in media intorno a 25-30mila pezzi al giorno, con punte di 35mila. Abbiamo commesse per 2,5 milioni di pezzi e ne ho dovute rifiutare per almeno 30 milioni”

Chi state rifornendo?Abbiamo fornito la Casa di reclusione di Maiano e a breve quella di Orvieto, la Croce Bianca, Stella d’Italia, il Gruppo Grigi e Eurospin, alcuni presidi delle forze dell’ordine. Ma sappiamo che le imprese per cui lavoriamo stanno rifornendo aziende ospedaliere di Napoli e del Nord Italia”.

Come è cominciata la sua avventura imprenditoriale?Circa 17 anni fa, dopo la nascita del primo figlio” dice Alessandra “avevo bisogno di realizzarmi, di rendermi indipendentemente economica ma in maniera autonoma, sa, non ho il carattere del dipendente. Così ho iniziato in una stanza di neanche 20 metri quadrati, poi il garage e ancora una piccola struttura che ora adibisco a magazzino. Due anni fa ho fatto costruire questo capannone di 1.000 metri quadrati”.

Una azienda in rosa?Diciamo di sì, anche se abbiamo con noi 3 colleghi uomini”.

E’ ancora difficile l’attività di terzista? E’ sempre più dura perché le aziende importanti ti sfruttano; c’è tanta concorrenza, specie dalla Cina dove la manodopera è alquanto vantaggiosa, e così si abbassano i prezzi a discapito della qualità. Per fortuna la mia ditta ha una sua nicchia ed è riuscita a bilanciare bene costi e ricavi così da garantire un’alta qualità del prodotto”.

Prima delle mascherine cosa produceva? Il 90% del nostro core business sono materiali sanitari e ospedalieri, realizziamo ogni tipo di telo per le sale operatorie, copertura degli strumenti eccetera. Il restante 10% è destinato ala camiceria su misura”.

C’è ancora qualche spazio che andrete a coprire?Stiamo pensando a una linea di produzione per camici sanitari di cui c’è gran bisogno in questo momento. Vedremo nei prossimi giorni”.

C’è una cosa che la preoccupa? “In questo momento mi piacerebbe avere una risposta formale dal Ministero della Salute perché il solo silenzio-assenso alla nostra autocertificazione non mi tranquillizza, diciamo che è un mio limite caratteriale sapere che è tutto a posto. Per quello che ci riguarda abbiamo ottemperato a tutto, anche i materiali sono di prima qualità ed anallergici”.

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