di Giancarlo Elia Valori (*)
Le tecnologie stanno diventando talmente avanzate, sofisticate, poco costose e di qualità così elevata, che nessun lavoratore “umano” potrà competere con loro. Questo significa che, senza pronti rimedi, la disoccupazione assumerà dimensioni drammatiche. Ci potrà salvare solo un nuovo contratto sociale, capace imporsi alle sfide del nuovo contesto globale.
L’economia italiana, in particolare, è in crisi. Una crisi profonda nonostante i timidi segnali di ripresa del Pil. Ma non è un Paese senza futuro. Dobbiamo affrontare problemi che vengono da lontano, e che vanno ben oltre il pesante debito pubblico: le diseguaglianze sociali, l’economia in nero, quella criminale, il ritardo del Sud, una burocrazia spesso persecutoria e inefficace. La crisi mondiale si è certamente innestata su questi mali. Anzi, li ha incancreniti. Rimediare non sarà facile. Ma non impossibile. Basterebbe guardare con occhi nuovi al nostro amato Paese. A cominciare dalla creazione di innovative realtà, in grado di dare nuova linfa e vigore al sistema Italia. Anzitutto occorre comprendere il problema della disoccupazione. la cui causa è da ricercare nel progressivo sviluppo dell’informatica e delle manipolazioni genetiche, che hanno dato luogo a un tipo di economia articolata su una forza di lavoro piccola. Ovverosia di élite. Mai e poi mai vedremo, come in passato, decine di migliaia di lavoratori uscire dai cancelli di fabbriche, come la Microsoft, la Genentech, o di altre industrie del computer, del software e delle tecnologie genetiche. Perché queste industrie non avranno più bisogno di manodopera di massa. Per cui la crescente disoccupazione discende direttamente da una stessa causa: le nuove tecnologie.
Prendendo spunto da una vecchia e articolata intervista dell’economista statunitense, Jeremy Rifkin (con traduzione curata da Francesca Leoni), è possibile fare delle valutazioni sulla disoccupazione e su come abbatterla. L’economista americano ricorda, ad esempio, che la globalizzazione dell’economia sembrerebbe un fattore a sé, e invece è il risultato delle telecomunicazioni informatiche e del software e delle tecnologie genetiche, che consentono a imprese transnazionali di lavorare simultaneamente in ogni parte del mondo. Certamente, se il mercato globale, un tempo legato alla geografia, sta ora passando dalla geografia allo spettro elettromagnetico, questo è il più grande cambiamento mai intervenuto nella storia del commercio. Se i mercati spostano i loro punti di riferimento dalla carta geografica al ciberspazio, questo non solo cambia tutta la base della teoria economica, ma soprattutto cambia in profondità la natura del lavoro.
Sul tema disoccupazione: non ci sarà più bisogno di una forza lavoro di massa. Una quota sempre maggiore di lavoro umano sarà svolta dalle tecnologie intelligenti e da quelle genetiche. Infatti, gran parte del lavoro la faranno i geni. Per l’alimentazione cominceremo a vedere soppiantate le colture agricole all’aperto da colture di tessuti vegetali e non vegetali al coperto. I microrganismi prenderanno il posto degli agricoltori, e non solo: vedremo geni agire come microrganismi per estrarre i metalli rari dal minerale grezzo. Cosicché anche nel settore minerario non ci sarà più bisogno di molti addetti. Si era limitato ha fare soltanto due esempi, ma avrebbe potuto citarne molti altri, perché il nuovo software, le nuove tecnologie intelligenti, le nuove tecnologie genetiche stanno sostituendo, sempre più, il lavoro umano a ogni livello. Secondo alcuni economisti il progresso tecnologico distrugge e distruggerà sempre più vecchi posti di lavoro. Ma molti altri invece sono convinti che ne creerà altri nuovi in grande quantità. Per dire se si tratta di una previsione realistica o sconsiderata questo dipenderà esclusivamente dalla nostra intelligenza e lungimiranza. Tale ipotesi comunque non avverrà affatto in modo automatico.
Nell’era industriale, quando un settore si meccanizzava, emergeva sempre un nuovo settore per creare in tempo nuove opportunità. Ai primi del Novecento molte persone che avevano un’azienda agricola cominciarono a meccanizzare il lavoro, e contemporaneamente molti dei nostri nonni migrarono nelle città e trovarono posto nelle fabbriche. Poi, quando anche le fabbriche si sono meccanizzate (negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta del secolo scorso) molti dei nostri genitori hanno potuto riqualificarsi e trovare, da “colletti bianchi”, nuove occasioni di lavoro in settori emergenti, come quello dei servizi. Questi processi non si ripeteranno tali e quali in questo XXI secolo. Oggi tutti e tre i settori – agricoltura, industria manifatturiera e servizi – si sono automatizzati e ristrutturati e, quindi, stanno cambiando la forza-lavoro di massa con gruppi d’élite e nuove tecnologie. Come in passato, abbiamo un nuovo settore di occupazione emergente, il settore della conoscenza, in cui si vanno continuamente creando nuovi posti di lavoro, nuove opportunità, nuove competenze, nuovi prodotti, nuove merci. Ma si tratta d’un numero di posti assai limitato. Bisogna domandarsi senza finzioni o ipocrisie: quanti addetti occorrono per mandare avanti un’industria biotecnologica o una società di software?
Il succo della faccenda è questo: le tecnologie stanno diventando talmente avanzate, talmente sofisticate, di qualità tanto elevata e così poco costose che nessun lavoratore “umano” è in grado di competere con loro. Di conseguenza, a meno che non si arrivi a un contratto sociale nuovo: un lavoro corto e solidale; credo che assisteremo ad una sempre crescente disoccupazione.
Di questo passo un 20% della forza-lavoro totale se la passerà sempre abbastanza bene: gli operatori della conoscenza, gli impiegati di concetto con le giuste qualifiche professionali. Ma in tutti i paesi questi privilegiati costituiranno sempre più un’isola felice rispetto a un mare di precari e di braccia inutili. Già adesso un buon 80% della forza di rango inferiore, quella che non è ben qualificata o sovrabbondante, sta finendo nei guai e viene sempre più emarginata. E’ interessante sottolineare, in tempi non sospetti (1995), quanto l’economista Rifkin preannunciava attraverso il suo libro, “La fine del lavoro”, il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato.
In essa Rifkin prevedeva, entro pochi anni, il definitivo trionfo delle macchine sul lavoro umano, proponendo possibili soluzioni per ridurre l’impatto sociale e anzi trarre vantaggio da questa trasformazione. Alla domanda se i governanti o gli economisti non avevano saputo tenere il passo degli imprenditori, dichiarò che “c’era stata una sottovalutazione del problema e che stiamo andando verso una occupazione sempre più d’élite. Invece molti uomini politici e molti economisti amano illudersi, e illudere, continuando a dire: «La storia dimostra che le novità creano più posti di lavoro di quanti ne distruggano». Ripeto: questo è stato vero ai tempi della prima e della seconda rivoluzione industriale, non lo sarà più nel secolo delle biotecnologie. La riconversione e la riqualificazione della mano d’opera che oggi è fuori mercato potrebbero essere una soluzione?
Anche se si sottoponesse a riqualificazione professionale tutta la forza lavoro del mondo formandola in vista dei nuovi posti (ed è impossibile, perché ci vorrebbero tanti anni e risorse imponenti, ma ammettiamo pure che ci si riuscisse) non vi saranno mai abbastanza opportunità sufficienti per occupare centinaia di milioni di persone in cerca di lavoro. Una caratteristica del secolo dell’informazione e delle industrie biotecnologiche, è quella di richiedere una forza lavoro esclusivamente d’élite. La tesi – che sostiene nel suo libro – è che, come l’età industriale ha posto fine alla schiavitù, così il nuovo secolo determinerà la fine del lavoro salariato di massa”.
Oggi occorre esprimere un pensiero la cui potenza corrisponda alla forza della rivoluzione tecnologica e sappia bilanciarla. Ovverosia produrre una ideologia sociale abbastanza forte, che sia cioè all’altezza dei cambiamenti rivoluzionari in corso nell’economia.
In questo modo sarà possibile vincere la tirannia del mercato globale. Senza dimenticare che il mercato è stato il baricentro degli interessi umani soltanto negli ultimi duecento anni, mentre durante tutti i secoli precedenti gli scambi commerciali sono sempre stati qualcosa di marginale rispetto alla vita. Rifkin sostiene, insomma, che la funzione-mercato in cui oggi definiamo la nostra esistenza, lavorando e vendendo il nostro lavoro, sarebbe un paradigma recente, che avrebbe già fatto il suo corso, perché ha completato la sua missione. Quindi dobbiamo cominciare a pensare la vita al di là del mercato. Cioè a pensare in termini diversi circa il “come contribuire” e il “che lavoro fare”.
Oggi i nuovi posti di lavoro veramente buoni, capaci di conferire status e nuovo prestigio, saranno quelli che concorreranno a creare il capitale sociale della società civile. In poche parole, si riferisce al Terzo settore: l’insieme delle attività non-profit e di volontariato. Secondo Rifkin, in questo campo, si aprono immense prospettive, anche perché si tratta di lavori d’un genere troppo sofisticato per poter essere sostituiti dalle tecnologie dell’oggi e del futuro: sono lavori che richiedono l’interazione delle volontà, virtù esclusiva degli esseri umani, e di cui le macchine non sono e non saranno mai capaci di generare.
Per abbattere la disoccupazione ci sono due cose da fare. In primo luogo, e a breve termine, ridurre drasticamente la settimana lavorativa dei già occupati. E questa è ancora una soluzione interna al mercato odierno. Ci serve una settimana lavorativa di 30 ore, cioè 6 ore al giorno per 5 giorni. Quando dicono che è irragionevole scendere a 6 ore di lavoro al giorno, è irragionevole non farlo! L’orario settimanale più corto significa che un maggior numero di persone possono dividersi i posti di lavoro esistenti, lavorare meno, lavorare in modo più intelligente, trarre maggiori vantaggi dal proprio lavoro. Questa tesi, lanciata anche dall’amico Franz Foti, è in linea con la storia degli ultimi centocinquant’anni di evoluzione tecnologica. A ogni stadio della rivoluzione industriale (pensiamo all’introduzione del vapore e dell’elettricità) la settimana lavorativa è stata sempre ridotta e i salari sono sempre aumentati. Siamo passati da una settimana di 80 ore a una di 70, poi di 60, di 50, di 40, fino a quella attuale di 38-36 ore: e ogni volta sono aumentati i salari e i benefici! La cosiddetta settimana corta andrebbe concentrata su quattro giornate di lavoro anziché cinque. Il che consentirebbe di liberare oltre mille posti di lavoro, in un ottica di flessibilità totale. Si tratta di un patto generazionale vantaggioso per imprese, lavoratori e Stato.
Le imprese, retribuirebbero solamente la prestazione lavorativa dei neo assunti, caricando gli oneri previdenziali e assistenziali allo Stato, che, a sua volta, eviterebbe di retribuire gli assegni di disoccupazione. Per i lavoratori è anche una ricetta contro lo stress. Perché lavorare meno fa bene: a dimostrarlo scientificamente e a metterlo nero su bianco è uno dei medici più importanti della Gran Bretagna, il presidente della “Faculty of Public Health”, professor John Ashton. Il quale ha sostenuto che adottando questo stile “le persone possono godersi di più il tempo libero, passare più momenti con la famiglia e ridurre i problemi di pressione che causano malattie anche mentali, dovute a un eccesso di carico di lavoro”. In un’intervista su The Guardian, lo studioso ha esposto la sua teoria evidenziando che “una cattiva distribuzione del lavoro è anche causa del peggioramento delle condizioni di salute di molte persone”. Spiega, inoltre, Ashton, che “quando si guarda al modo in cui conduciamo le nostre vite, lo stress al quale siamo sottoposti, la fretta e le assenze per malattia legate al lavoro, sono argomenti rilevanti”.
Settimana cortissima- Quindi “dobbiamo rapidamente ridurre i giorni lavorativi a settimana, portandoli da 5 a 4, perché il problema che abbiamo nel mondo del lavoro è che c’è una parte della popolazione che lavora troppo e una percentuale che non ha neanche un posto di lavoro”. Solo così si risolverebbe l’annoso problema della disoccupazione, svincolando dei posti di lavoro che potrebbero essere occupati da chi al momento non ne ha, per garantire a tutti i lavoratori una vita migliore, con momenti liberi per lo sport, i figli e il piacere.
Una tesi questa che trova d’accordo, sia chi scrive che l’amico Franz Foti, il quale sostiene che “concentrando il lavoro su quattro giornate di lavoro, anziché cinque, si libererebbero in Italia 1.109.000 nuovi posti di lavoro”. E’ una proposta sensata, perché configurerebbe un nuovo patto generazionale e solidale nei confronti delle nuove generazioni. All’atto pratico lavorando la lunedì a giovedì, si configurerebbe la cosiddetta settimana cortissima, dove i dipendenti a tempo pieno distribuirebbero il loro orario su quattro giorni lavorativi, non necessariamente consecutivi, allungando l’orario giornaliero rispettivamente a 9 ore per coloro che ne prestano 36 a settimana, 9,30 per chi ne presta 38 e 10 ore per chi ne presta settimanalmente 40. In questo modo, ricorda Foti, “con la settimana cortissima si renderebbero libere le giornate successive, che potrebbero essere utilizzate per la nuova occupazione nei settori dove le caratteristiche produttive e professionali consentirebbero questa nuova formula lavorativa. Tutto ciò, ovviamente, da realizzare in un’ottica di flessibilità totale, non penalizzante e non precaria della prestazione di lavoro, attraverso contratti biennali o triennali e con diritto di precedenza di stabilizzazione a tempo pieno nella medesima azienda o in altre di analoghe caratteristiche produttive e professionali”. Tale patto generazionale consentirebbe di aumentare i margini della produzione, di ampliare e perfezionare nuovi sistemi di flessibilità organizzativa con conseguente possibilità d’incremento della produttività a vantaggio dell’occupazione, della competitività, e della qualità della vita. In pratica l’analisi di Foti, valorizzata dai dati Ocse, evidenzia che “l’insieme dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, pari a 24.647.000, e calcolando che l’indicata proposta di lavoro corto e solidale, o patto generazionale, possa coinvolgere inizialmente solo il 4,5 di tutti i dipendenti del sistema Italia perché non tutte le professionalità sono fungibili e non tutti i settori si prestano attualmente a questo tipo di mutamento, si ricaverebbero oltre un milione di posti di lavoro (1.109.000). Il monte ore annuo lavorabile per ciascun dipendente neo assunto, nei giorni di venerdì e sabato, sabato e domenica o diversamente turnato, sarebbe pari a 825 ore teoriche – 16 ore settimanali X 4,3 settimanale mensili X 12 mesi – che corrispondono circa alla metà elle ore effettivamente lavorate per dipendente a tempo pieno, che sono 1.752. Il salario percepibile risulterebbe intorno alle 800 euro mensili.
E’ logico, quindi, rinnovarsi e innovare, ottenendo vantaggi con meno fatica e con salari migliori. Se crediamo – e chi scrive ci crede – che l’incremento di produttività dovuto alle nuove tecnologie dell’informazione sia comparabile almeno all’incremento apportato dalla forza-vapore e dall’elettricità, allora dobbiamo chiedere ancora una volta una settimana lavorativa più corta: 30 ore, 6 al giorno, più gente al lavoro, paga migliore, più vantaggi. Ma, ovviamente, a una condizione: che nel contempo lo Stato offra alle imprese, mediante sgravi fiscali e assunzione di oneri sociali, incentivi tali da mantenerle competitive. Lo Stato perderebbe parte delle sue entrate, ma potrebbe recuperarle rapidamente grazie al maggior reddito tassabile prodotto dalla riforma, in quanto un maggior numero di persone verrebbe messo in grado di acquistare beni e servizi. Ecco il tipo di impostazione che andrebbe adottata: una sorta di do ut des (frase latina, dal significato letterale: «io do affinché tu dia» e senso traslato «scambiamoci queste cose in maniera ben definita»), ovverosia una sorta di nuovo contratto sociale o patto generazionale.
(*) Presidente della merchant bank “La centrale Finanziaria Generale S.p.A.”
Presidente della “Cattedra sugli studi sulla pace, la sicurezza e lo sviluppo internazionale presso la Facoltà di relazioni internazionali della Peking University, nonché “professore straordinario” di economia e politica internazionale nello stesso Ateneo