Contratti “labirinto”, spese nascoste e costi che lievitano a dismisura. Il fenomeno dell’usura non mette radici soltanto negli angoli più bui della criminalità. Spesso il rischio è che si nasconda anche dietro a rapporti molto più convenzionali, come quelli che si instaurano tra un cliente e la sua banca.
Conti correnti, mutui, leasing e finanziamenti possono così diventare una trappola, dalla quale ci si libera soltanto arrivando in tribunale. E a patto che i giudici riconoscano le ragioni del cliente. Così come è successo ad una società di Todi che, sottoposta a decreto ingiuntivo dal proprio istituto di credito, ha ingaggiato una complessa battaglia legale, aprendo un vaso di Pandora molto più ampio.
La società, operante nel settore dell’elaborazione dati, il 26 agosto del 2014 riceve un decreto ingiuntivo da parte della sua banca con il quale si chiede il pagamento di 50.526,33 euro, relativi al conto corrente con il quale la società lavorava. Il “salasso” presentato dalla banca appare però sproporzionato e così la srl presenta opposizione alla richiesta di pagamento.
«Abbiamo chiesto di poter verificare tutta la documentazione – spiega Fabio Cini, dottore commercialista tuderte e delegato umbro dell’associazione Sos Utenti, che ha curato la parte tecnica della causa in tandem con l’avvocato Giampiero Biscaroni di Perugia – verificando che il contratto tra banca e cliente era “vuoto”: mancavano riferimenti ai costi di gestione, le spese relative al massimo scoperto e tutta una serie di altre informazioni essenziali».
Scriverà infatti il tribunale di Spoleto nella sentenza emessa alla fine dello scorso mese di novembre che per il conto corrente acceso «in data 12 luglio 1994 (…) le condizioni economiche non risultano espressamente concordate ma recano un generico rinvio (…) al foglio informativo disponibile presso la dipendenza». Foglio che però non era allegato al contratto né, tantomeno, era stato firmato dal cliente. Se ciò non bastasse, la banca ha prodotto «in maniera incompleta» gli estratti conto relativi al periodo di sussistenza del conto corrente oggetto di controversia.
Documenti insufficienti, clausole inesistenti e conti da rifare hanno portato ad un conteggio assai diverso visto che la perizia di parte ha ipotizzato «un saldo a credito del correntista nella misura di 160.678,99 euro a fronte di un iniziale saldo debitorio di 50.526,33 euro alla data di chiusura del conto». Il tribunale ha poi effettuato una «operazione di rideterminazione del saldo» che «consente di individuare un credito per il correntista nella misura di 31.021,93 euro a fronte del saldo debitore di 50.526,33 euro». La banca, dunque, che inizialmente vantava un credito adesso si ritrova debitrice del correntista di oltre 30mila euro, più interessi legali, spese di lite (4.000 euro), spese (259 euro) e conto dei consulenti di parte.
Quanto capitato alla società tuderte non è una rarità. «In questo caso – commenta Cini – l’aspetto positivo è che la società era ferma e quindi il decreto ingiuntivo non ha provocato una paralisi finanziaria conseguente alla iscrizione nella centrale rischi interbancaria». Cosa che invece avrebbe provocato conseguenze gravissime se la società si fosse trovata in una condizione di operatività, visto che l’iscrizione nella lista dei cattivi pagatori avrebbe prodotto una richiesta di immediato rientro, l’impossibilità di accedere a forme di credito e tutta una serie di altre problematiche. Ovviamente, immotivate.
In Umbria – così come in Italia – questo tipo di situazione è piuttosto frequente e può arrivare ad interessare circa il 30% dei casi di rapporti che le banche classificano a sofferenza e colpiscono con azioni ingiuntive clienti – soprattutto professionisti, ma anche privati cittadini – che poi si rivelano essere loro debitori. Secondo Sos Utenti, a marzo 2017 erano 21.388 i clienti bancari classificati a sofferenza presso la centrale dei rischi di Bankitalia e, quindi, soggetti a pretese esecutive anche con decreti ingiuntivi, per complessivi 3.681 milioni di euro. Se la stima dell’associazione è corretta, significa che circa 1.200 milioni di euro che le banche operanti in Umbria pretendono da imprese e famiglie della regione non solo non sono dovuti, ma sono le stesse banche a dover restituire qualcosa. «Si tratta di controversie che non interessano soltanto l’operatività dei conti correnti – commenta Cini – ma anche mutui, leasing e finanziamenti. E che, seppure in misura diversa, toccano aziende, professionisti e cittadini. Siamo e saremo sempre molto attenti a questo genere di fenomeni. E stiamo lavorando anche sul fronte dei risarcimenti danni, con l’obiettivo di far riavere ai clienti non solo ciò che hanno ingiustamente pagato alle banche, ma anche eventuali danni che siano derivati dai comportamenti scorretti degli istituti di credito».
Foto generica