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Contagi, ospedalizzati “con” Covid e “per Covid”: facciamo chiarezza

In questi giorni si dibatte sull’opportunità di modificare i criteri dei bollettini Covid sulle ospedalizzazioni, non inserendo più i pazienti ricoverati per altre patologie e risultati positivi al Covid quando hanno effettuato il tampone per l’accettazione.

E’ quanto chiedono le Regioni. Il cui obiettivo, sostanzialmente, è quello di sfuggire al cambio di colore (e quindi alle restrizioni) legato alla percentuale di saturazione dei posti Covid in ospedale, tra area medica e terapie intensive.

Il Comitato tecnico scientifico, l’Istituto superiore di sanità e la Federazione dell’Ordine dei medici chiedono invece che il bollettino resti invariato. Sostanzialmente adducendo tre motivazioni. La prima è che risulta difficile, per alcune patologie, definire se l’aggravamento della situazione clinica complessiva sia dovuto o no al Covid, in assenza di problematiche polmonari. Che non sono le uniche complicazioni indotte dal virus (si pensi agli effetti sui diabetici ed agli scompensi cardiaci nei soggetti a rischio). L’altra è che occorre assicurare la più ampia sorveglianza possibile sull’evoluzione degli effetti del Covid. La terza è che comunque un paziente positivo, dovendo essere isolato dagli altri del suo stesso reparto, contribuisce comunque alla pressione sul sistema ospedaliero per la difficoltà nella gestione.

Il bollettino sui contagi

C’è poi chi chiede anche di non conteggiare più gli asintomatici tra i positivi nel numero giornaliero. Elemento, questo, che risulta nella pratica difficilmente applicabile, vista l’ampia gamma della sintomatologia prodotta dal Covid. E la soggettività nel manifestare e soprattutto nel comunicare tali sintomi. Esemplificando: un sintomo “oggettivo” è la temperatura sopra 37.5. Un altro può essere il livello di ossigenazione del sangue. Più difficile, invece, misurare e comprendere se sia dovuto o meno al Covid un dolore muscolare, il mal di testa, ma anche – soprattutto in inverno – sintomi tipici del raffreddore.

I dati umbri

In Umbria il commissario Covid Massimo D’Angelo ha comunicato che a seconda degli ospedali della regione, la percentuale di pazienti contagiati dal virus ma ospedalizzati per altre patologie varia tra il 30 e il 40%. A livello nazionale lo studio Fiaso, condotto in 6 ospedali, rileva una percentuale di ospedalizzati asintomatici del 34%.

L’assessore umbro alla Sanità Luca Coletto ha spiegato che la Regione Umbria è già in possesso dei dati suddivisi per casi clinici. E di essere quindi pronta da subito al cambio di conteggio, se il Ministero lo deciderà.

Chiarezza sui numeri

Al di là degli opposti interessi nel “tirarli” da una parte e dall’altra, i numeri, pur sempre da interpretare, devono aiutare l’opinione pubblica a comprendere e chi ha ruoli di responsabilità ad assumere decisioni.

Per questo, qualunque sarà il compromesso che trovato a livello nazionale, alcune considerazioni vanno fatte. Per fare chiarezza.

Il dato sui contagiati

Il numero giornaliero dei contagiati è un dato ancora importante, data la situazione complessiva e soprattutto le regole attuali sulle quarantene. Duecentomila contagiati al giorno, fossero anche tutti asintomatici (e la maggior parte lo sono, o almeno risultano pauci sintomatici, grazie alla protezione del vaccino e ai minori effetti di Omicron, pur molto più contagiosa, dicono gli esperti) sono 200mila persone che, con le regole attuali, il giorno dopo non possono recarsi ad insegnare a scuola, a lavorare in fabbrica, ad accudire malati in ospedale, a guidare un autobus, a disputare una partita di calcio.

In Umbria gli attualmente positivi l’equivalente dell’intera popolazione di Spoleto

Per fare un paragone rispetto alla realtà umbra, 4mila nuovi positivi in 24 ore come registrato nei giorni scorsi significa comunque fermare l’equivalente dell’intera popolazione di Cannara, neonati compresi. Senza contare i loro contatti costretti, con varie modalità e durate, alla quarantena. Duemila nuovi positivi, come si registra attualmente in Umbria, equivalgono più o meno alla popolazione di Pietrafitta. E gli attuali 35mila positivi in Umbria sono quasi l’equivalente dell’intera popolazione di Spoleto (la quinta città dell’Umbria per numero di abitanti). Un numero così grande di persone a rischio della loro vita? Fortunatamente no. Ma un numero così grande di persone – alle quali vanno aggiunti gli altri costretti alla quarantena – deve comunque restare a casa, almeno in base alle regole attuali. E su numeri alti, purtroppo, la conseguenza è anche un determinato livello decessi, pur con una bassa percentuale. O comunque di complicazioni, che portano ad affollare gli ospedali e a rimandare prestazioni sanitarie per altre tipologie.

Allarmisti e negazionisti

Detto questo, il dato giornaliero, deve indurre alla prudenza, ma non deve allarmare. Soprattutto come ora, quando è accompagnato da quelli relativi agli indici di ospedalizzazione e di mortalità che sono nettamente più bassi rispetto a ciò che si osservava un anno fa, quando ad essere prevalente era la variante Delta.

Quanto all’effetto di “spaventare” o meno le persone, sembra un falso problema. Dopo due anni di emergenza, le posizioni, lungo l’arco che vede gli allarmisti a un’estremità e i negazionisti dall’altra, sono ormai definite. E lo sono nella testa di ognuno, al di là dei numeri. Eliminare la cronaca nera per non destabilizzare la popolazione era una direttiva in vigore, fortunatamente, in altri tempi e in altri contesti socio-politici.

Se ci sono 200mila nuovi positivi in un giorno, tanti restano, che se ne parli o meno. Del resto, chi è chiamato ad assumere decisioni non lo fa sulla base di quanto o di come se ne parla. Perché le fonti di tali cifre, essenzialmente, sono proprio le stesse autorità chiamate poi ad assumere i provvedimenti.

L’esempio dai dati umbri

Guardando ai dati umbri, ad esempio, il 13 gennaio di quest’anno nella regione si avevano 31.903 attualmente positivi al Covid contro i 4470 dello stesso giorno del 2021. Ma le ospedalizzazioni sono ora 21 volte in meno e i decessi 11 volte in meno. A conferma, appunto, dei minori effetti di Omicron, della protezione del vaccino dalla malattia più acuta e della migliore risposta anche in termini di cure (questo sempre a detta del Nucleo epidemiologico e del sistema sanitario regionale).

Disallineamenti tra banche dati e letture del trend

E’ anche evidente che più si scende nei territori (fino ai piccoli comuni) maggiori sono le variazioni percentuali. Specie se osservate per brevi periodi. E maggiori sono i possibili disallineamenti per errori nell’inserimento dei dati da parte della protezione civile, problemi tecnici, aggiustamenti. In Umbria ad esempio, il generale Ruspolini, quando è intervenuto a supporto del conteggio dei dati, ha verificato vari disallineamenti tra le banche dati delle Asl e la dashboard della protezione civile. Così come è accaduto alcune volte che i sindaci abbiano evidenziato difformità tra i dati in loro possesso e quelli pubblicati dalla protezione civile. Ciò, il più delle volte, è legato semplicemente alla residenza o al domicilio indicato dalla persona risultata positiva.

Dovrebbe essere evidente che alla luce di tutto questo non conta pesare col bilancino un positivo in più o in meno (o una decina in più o in meno, con i dati attuali). Ma il trend è invece importante. Soprattutto quello settimanale, comunicato dal Nucleo epidemiologico, perché standardizzato anche rispetto ai tamponi processati giornalmente o comunque tenendo conto di condizioni che alterano in modo anomalo le curve.

L’indice di positività

Ed a questo proposito va fatta un’ulteriore considerazione: il cosiddetto indice di contagiosità giornaliero, dato dal rapporto dei positivi sui tamponi processati, è un parametro che dà l’idea del fenomeno che si sta vivendo. Ma statisticamente ci dice ben poco, dato che non è calcolato su un campione rappresentativo della popolazione, ma su coloro che si sottopongono a tampone. E’ evidente che tamponi effettuati su contatti stretti di positivi hanno una maggiore possibilità di risultare positivi rispetto ad uno screening effettuato ad esempio su una definita popolazione scolastica. Per questo le autorità prendono come riferimento l’indice Rt, che calcola il tasso di contagio, cioè il numero di persone in grado di contagiare in un determinato spazio temporale.

Ospedalizzati “con” e “per” Covid

Infine i dati ospedalieri, quelli su cui si dibatte in queste ore. Anche in questo caso, occorre capire quale risposta ci si attende dai numeri.

Se serve a comprendere l’attuale livello di “pericolosità” (o “letalità” di un virus, ad esempio di una nuova variante), è evidente che vanno considerati i pazienti ospedalizzati con determinati sintomi. Non solo polmonari, come nello studio Fiaso, ma evidentemente circoscritti a quelli che le autorità sanitarie ritengono effettivamente riconducibili al Covid. Escludendo invece, ad esempio, chi finisce al pronto soccorso perché vittima di un incidente stradale.

Se invece la risposta è relativa al livello di sofferenza di una struttura ospedaliera, anche il conteggio dei pazienti “con Covid”, ospedalizzati per traumi o altre patologie, ha un senso. Perché attualmente finiscono comunque in area Covid o comunque costringe ad attrezzare letti separati da quelli di altri pazienti, personale dedicato o comunque dotato di particolari dispositivi e che deve seguire protocolli per evitare possibili contaminazioni tra percorsi “bianchi” e cosiddetti “sporchi”. Insomma, si tratti di pazienti la cui gestione risulta più problematica.

A meno che il sistema sanitario nazionale e quelli regionali, fino ai singoli ospedali, non siano in grado di creare delle aree ben distinte per i pazienti Covid all’interno dei principali reparti, non solo per la medicina ordinaria. Insomma, dovrebbe essere riorganizzata l’assistenza medica, ospedaliera e territoriale.

La vera utilità dei numeri

Prima ancora che il calcolo su quanto l’utilizzo di un parametro o di un altro può aumentare o diminuire la possibilità di passare ad una fascia di rischio, Governo, Regioni e Cts dovrebbero ragionare su quali sistemi di conteggio siano più adatti per cercare di tracciare curve matematiche di previsione attendibili sulle quali organizzare la rete ospedaliera, il personale, la dotazione tecnica e farmaceutica, il meccanismo dei tracciamenti. Ma anche, ad esempio, su come organizzare trasporti e strutture scolastiche. E il fatto che tutto questo sia il più possibile accessibile a tutti sembra un valore, non un rischio.

I numeri, in sostanza, quando sono chiari parametri, criteri e fonti, più se ne hanno e meglio è.