E’ stato depositato nelle scorse ore il ricorso in Cassazione avverso alla decisione del Tribunale del riesame che ha determinato la permanenza in carcere di Emanuele Armeni, il carabiniere indagato per l’omicidio del collega Emanuele Lucentini.
Il collegio difensivo di Armeni si è ampliato ed ora in difesa del militare di Castel Ritaldi ad affiancare l’avvocato Marco Zaccaria c’è anche il collega Michele Montesoro del Foro di Roma. E proprio l’avvocato romano nelle scorse ore ha presentato il ricorso alla suprema Corte per chiedere che all’indagato, in carcere dal 16 luglio scorso non venga applicata la misura della detenzione in carcere.
Tra le motivazioni del ricorso tre punti vengono principalmente sollevati dalla difesa. Il primo è quello di una sostanziale messa in discussione della ricostruzione dell’omicidio depositata nelle motivazioni del riesame, che secondo i legali non sarebbero supportate da elementi scientifici. Secondo punto, ci sarebbe l’insussistenza di gravi indizi di colpevolezza relativi alla volontarietà dell’omicidio. Terzo punto, secondo gli avvocati di Armeni, riguarda la eccessività della misura disposta nei confronti del loro assistito anche a fronte di una presunzione di colpevolezza e chiedono in sostanza che vengano almeno disposti gli arresti domiciliari in attesa del rinvio a giudizio del processo che ormai sembra profilarsi per l’Armeni.
Un ricorso che arriva dopo che per tre volte i giudici hanno deciso per la sua carcerazione. Primo era stato il Gip di Spoleto che ha emesso il 16 luglio (ad un mese esatto dalla morte di Lucentini) l’ordinanza di custodia cautelare. Lo stesso Gip ha rigettato la richiesta di scarcerazione presentata dalla difesa dell’indagato e poi per la terza volta la decisione del Tribunale del riesame il 5 di agosto ha lasciato in carcere il carabiniere. Il tutto a fronte della difesa di Armeni che ha continuato a ribadire: “Siamo ancora in attesa dell’individuazione del movente”.
Cosa è accaduto il 16 maggio? Armeni si è sempre dichiarato innocente e ha descritto la morte del collega come un evento involontario avvenuto mentre viene colpito da una “storta” al piede che gli causa una torsione e la conseguente caduta con il colpo che parte accidentalmente della mitraglietta di ordinanza del collega (“che solo per cortesia stava tenendo”, versione di Armeni, ndr). Versione non realistica secondo procura e giudici. Perché da un M12 S2, hanno spiegato i periti, un colpo non è possibile che parta in maniera accidentale. Ecco perché allora, nella tesi accusatoria, si spiega il perché in un primo momento sarebbe stato importante per l’Armeni far credere che l’arma che ha sparato non fosse l’S2, ma l’M12 semplice, un modello più datato che nel tempo aveva rappresentato dei problemi tecnici alla “sicura” (inconvenienti che portarono la Beretta negli anni ’80 a modificare la prima versione nella più sicura S2). Altro elemento, se confermato, di imperizia nella prima fase di indagine, che avrebbe portato all’apertura di un fascicolo parallelo su 5 colleghi carabinieri.
Dopo lo sparo cosa è accaduto? E proprio sul comportamento dei colleghi di Armeni gli inquirenti avrebbero trovato sostegno alla tesi di un omicidio come “scelta consapevole e volontaria”, questo, scrivono i giudici “è confermato dal comportamento assunto dall’indagato subito dopo l’esplosione del colpo: nessuno lo sente urlare o gridare aiuto dal piazzale della caserma. Non si avvicina al corpo di Lucentini per soccorrerlo o anche solo per sincerarsi delle condizioni del collega che in quel momento è ancora vivo. Tutto quello che fa è poggiare la pistola a terra e avviarsi camminando verso l’interno della caserma. L’unica spiegazione plausibile del comportamento tenuto è che Armeni sapesse bene di aver sparato alla testa di Lucentini e che il collega, ferito così gravemente, non sarebbe sopravvissuto”. Un quadro agghiacciante nel quale il collega che continua a dichiararsi innocente non si china nemmeno sul corpo del carabiniere ferito a morte per prestargli soccorso.
Ma la Procura potrebbe essere ad un passo dal chiudere le indagini e dal chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato.