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Cambiamenti climatici ed epidemie, quel battito d’ali che ci ha messo nei guai

Secondo molti studi le epidemie sono legate ai cambiamenti climatici, i germi infatti potrebbero nascere e attaccare l’uomo anche – e probabilmente – a causa della costante deforestazione, dell’aumento della temperatura del nostro pianeta e di eventi estremi.

David Quammen, autore di Spillover, L’evoluzione delle pandemie (2014) e scrittore su National Geographic, New York Times e Book Review, ha affermato queste malattie che saltano fuori una dopo l’altra non sono accidenti ma conseguenze volute da nostre azioni. Quammen segue da vicino i cacciatori di virus, cui questo libro è dedicato, dalle grotte della Malesia – sulle cui pareti vivono migliaia di pipistrelli – alla foresta pluviale del Congo, alla ricerca di rarissimi, e apparentemente inoffensivi, gorilla. Ciascuno di quegli animali, come i maiali, le zanzare o gli scimpanzé può essere il vettore della prossima pandemia – di Nipah, Ebola, SARS, o di virus dormienti e ancora solo in parte conosciuti – che secondo l’autore un piccolo spillover può trasmettere all’uomo.

Certo è che già nel 2018 l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva previsto una pandemia terribile – ha ricordato il professore di Epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra Paolo Vineis su Live, inserto de la Repubblica – legandola allo stato di salute della Terra e alle nostre responsabilità.

Tutto è connesso, un po’ come su Pandora, luna del gigante gassoso Polifemo, nell’universo fantastico di Avatar creato nel 2009 da James Cameron, film con più incassi della storia del cinema e superato, ironia della sorte, lo scorso anno da Avengers Endgame. Una “fine dei giochi” reale quella che stiamo vivendo. Forse la natura ha lanciato un messaggio, chiaro, imperativo.

Come scritto anche nel mio “editoriale zero” del nuovo magazine culturale “Verbum Press” tra il 2030 e il 2050 il riscaldamento globale, con l’aumento delle temperature e tutto quello che ne consegue provocherà nel mondo 250mila morti in più. Si morirà per le ondate di calore, per la maggiore diffusione delle infezioni, per la malnutrizione dovuta alle violente carestie nelle aree più difficili. Fattori tutti amplificati dai cambiamenti climatici.

Che la Terra non se la passi bene ce lo dicono esperti e scienziati fin dagli anni ’80, l’ultimo decennio poi è stato quello dei record che puntualmente vengono frantumati di anno in anno, in peggio.

Intervistato su Live de la Repubblica Paolo Vineis ha affermato che una cascata di eventi impercettibili può portare le offese all’ambiente e generare germi pericolosi, così anche nel caso della SARS-Cov2 si ipotizza che i pipistrelli abbiano trasmesso questo ceppo virale a qualche animale intermedio e questo all’uomo. Insomma, una catena di eventi inizialmente rari poi amplificati e sviluppati in modo esponenziale, l’”effetto farfalla” appunto.

Il settimo album di Alessandro Zannier, in arte Ottodix, per Discipline Records è davvero un’operazione artistica multidisciplinare, tra musica, divulgazione e arti visivi ci parla delle “connessioni” spesso invisibile che legano uomini, animali e cose.

Alessandro come nasce l’idea di questo nuovo album, a tre anni di distanza dal tuo ultimo lavoro discografico “Micromega”?

Lo definisco quasi uno “spinoff” del precedente album “Micromega”. È ispirato per la precisione al brano “Planisfera”, sesto di nove livelli di una cosmogonia di soggetti enciclopedici della natura raggruppati per grandezze. Il progetto abbracciava l’orizzonte più vasto immaginabile, quindi non restava che l’indagine di una delle sue parti. Ho pensato di realizzare un omaggio alla geografia e alla storia, con un focus sul pianeta Terra, il grande malato di questo secolo. Malato almeno dal punto di vista del parassita-uomo che lo sta infestando. La terra (come dicevo in “Planisfera”), se ne frega, è un sasso che gira a prescindere da noi, che ci siano oceani d’acqua o acido solforico. Entanglement nasce dall’esigenza di continuare a dare una forte connotazione didattica al mio lavoro musicale-artistico, un mio personalissimo approccio, questo e una mia crociata sempre più convinta, per rilanciare la musica anche pop, su altri territori.

Nel tuo ultimo album il “viaggio” era rappresentato dalle microparticelle ai sistemi di universi attraverso canzoni ispirate dalla fisica all’astronomia e alla filosofia, con “Entanglment” si intraprende un viaggio alla Jules Verne intorno al pianeta Terra, ai suoi mari e ai suoi continenti. Quali connessioni hai esplorato?

Credo tutte. Il germe di quest’album è nato da una vacanza a Zante e poi a Lanzarote, in un’isola, dimensione che io amo follemente. L’isola è una potentissima figura metaforica per l’esistenza umana. Ogni uomo nasce e muore solo, si sente una goccia nella vastità del nulla. Il mare aperto è un non-orizzonte astratto che ci sbatte in faccia la nostra solitudine esistenziale, quindi il desiderio di mettersi in contatto con altri uomini è atavico soprattutto di fronte al mare.

Mi sono chiesto da dove era iniziata questa iper-connessione compulsiva della società umana globale. Ho dunque iniziato a studiarmi la storia della navigazione, le rotte dei grandi esploratori, scoprendone di importantissimi, ma semi sconosciuti a noi occidentali, drogati da una visione eurocentrica. Il Cinese Zeng He, ad esempio o gli arabi che per mare hanno compiuto cose incredibili e inventato metà della nostra strumentazione. Poi le mappe delle colonizzazioni, le pipeline petrolifere, che spiegano anche i veri motivi di certe guerre, la geografia delle migrazioni animali, umane, dei semi e la rete di muffe, spore e radici con cui comunica il mondo vegetale a grandissime distanze. Fino alle rotte aeree, satellitari e il web. Praticamente le vene, le arterie e il sistema nervoso (le fake news lavorano su quest’ultimo), della vita e della razza umana, che oggi è divenuta come un unico grande organismo in grado di alimentarsi, ma anche di avvelenarsi per intero in pochi istanti. Tutte queste riflessioni tra il geografico e il catastrofico, mi hanno riportato al brivido che da ragazzo avevo aprendo gli atlanti e scoprendo luoghi remoti da immaginare. Oggi il concetto di remoto e di disconnesso sta scomparendo del tutto e ci procura orrore e sgomento, ma in futuro sarà la salvezza psicofisica dell’uomo. Il ritorno all’isola e al silenzio, il periplo di Ulisse. È un disco-libro fanciullesco in cui mi sono vestito da Capitan Nemo (o da Caronte) per accompagnare l’ascoltatore alla riscoperta della geo-storia e della sua importanza fondamentale, in giro per le terre emerse e per gli oceani, per capire come sopravvivere ai tentacoli di quell’iper-piovra, che è il grande mostro dell’iperconnessione.

Come mai questo titolo, il fenomeno dell’entanglment quantistico che mette in relazione fra loro eventi distanti migliaia di chilometri, scelto tra l’altro in un periodo complicato per la nostra Terra?

Oltre che mantenere un taglio filosofico (mi ha colpito e ispirato molto il libro “Iperoggetti” di Timothy Morton, letto apposta per darmi stimoli quando avevo solo idee vaghe) ho voluto conservare un elemento di continuità coi toni da divulgazione di “Micromega”, che usava la scienza per trovare lo schema sotterraneo comune dei nostri comportamenti umani in relazione con la natura.

Il principio dell’entanglement quantistico, come hai accennato tu, ribalterebbe la visione spazio-temporale del divenire delle cose che l’uomo ha come fondamento certo dell’esistenza, suggerendo invece che le cose possano avvenire in contemporanea, annullando la causalità. Ovvero: tutte le opzioni esistono già, tutte le combinazioni possibili degli avvenimenti sono già stese sul tavolo come un gigantesco ologramma a più dimensioni. In questo banco di pixel spenti, la materia, gli eventi, l’uomo, le azioni, sono led accesi o spenti. Tutto, nel mare quantistico delle probabilità, esiste già, passato e futuro compresi. Un’idea destabilizzante, ma che ci dovrebbe rendere più umili, poiché se la comprendessimo appieno capiremmo che un danno fatto a un dettaglio, danneggerebbe l’intero quadro. Una delle caratteristiche degli ologrammi è infatti quella di avere in ogni suo singolo punto riprodotta l’intera immagine. Se si danneggia un punto, l’intera immagine sbiadisce. Quello che sta capitando ora al mondo; danneggi un punto e immediatamente il disastro è su scala globale. L’Australia siamo tutti, la Cina siamo tutti, Fukushima siamo tutti, ecc.

In Pacific Trash Vortex, singolo dell’album, ci racconti dell’isola di plastica – enorme – che galleggia nel Pacifico. Credi che l’umanità sia pronta per un vero cambio di rotta? Oppure isole di rifiuti si moltiplicheranno negli anni a venire?

Il brano confronta la deriva trash della civiltà verso ambiente e natura, con quella del nostro livello morale, culturale, di empatia e di buongusto. Lo confronta con le tonnellate di rifiuti scaricati nei mari in questi ultimi decenni. Una deriva inarrestabile, parallela, etico/morale da una parte e fisica-ambientale dall’altra. Il continente delle microplastiche che avvelena il Pacifico è solo una delle sei macroaree individuate negli oceani. Sono ovunque. Mi sono immaginato la discarica del web, fatta di fake news, meme orrendi, demagogia da due soldi, rabbia sociale, ignoranza e violenza verbale e tutto quello che parte dalla pancia dell’uomo medio attuale. Come una sorta di cloaca del web, su cui piccoli dittatori da operetta oggi tentano di piantare la loro bandiera. Il coro “Pacific trash Vortex!” (il nome vero che ha quest’area del Pacifico) è declamato come il grido di una folla assuefatta dal suo leader. Amo questo pezzo, è molto Ottodix, richiama tutto il mio background wave-electropop, è cinico e fa battere il piede in modo pop, ma se lo si ascolta nel testo, è un brano di denuncia molto forte.

Tu hai esposto – come artista visivo – in personali collettive e Biennali tra Italia, Cina, Brasile, Germania e Francia, a fianco di artisti come Maurizio Cattelan, Ai Wei Wei e Michelangelo Pistoletto e nel 2017 hai pubblicato un’imponente piattaforma enciclopedica visionaria (micromegaproject.com). Quanto ciò che stiamo vivendo in queste ultime settimane influenzerà l’arte?

Vedi, per come sono abituato a concepire l’idea di arte contemporanea io, l’arte se ne doveva già occupare due o tre anni fa. Anche cinema, letteratura e architettura. Qualcosa è stato fatto, ma molti sono stati a dormire sulla fuffa che un certo mondo dell’arte continua a inseguire, come trend estetici, public relations con fondazioni, gallerie, musei, trascurando i contenuti fondamentali delle opere e quella “mission” che l’arte (e la musica) contemporanea dovrebbero avere, ovvero la vocazione alla profezia, all’avanguardia, al precorrere e intuire dove si sta andando, ma non in senso estetico. Nei contenuti. Perdio. L’arte deve dare l’allarme prima, o al massimo farsi già trovare pronta durante. Se lavora a partire dal “dopo”, è solo marketing o artigianato. Quando succedono simili cambiamenti filosofici della realtà globale e della sua visione, gli artisti contemporanei sono quelli che ci avevano lavorato tre anni prima. Non quelli che inizieranno da qui. Chi inizia oggi, con questi stimoli deve incominciare a intravedere disagi, pericoli e sfide future di domani, inimmaginabili ora. La cultura, l’arte, ha sempre il ruolo di sentinella, di avanscoperta. Chi inizierà da oggi in poi a parlare di virus o di iper connessione è, e sarà, solo un furbo.

Alla fine di tutti questi giorni, credi che l’umanità cambierà il suo approccio e noi saremo più sensibili nei confronti della natura?

Mi faccio la stessa domanda e a seconda dell’umore mio o delle cose che leggo o vedo in tv, vado a giorni alterni. A volte penso in modo ottimista che sia un’occasione irripetibile per ridisegnare il sistema dalle fondamenta, possibilmente inventando qualcosa di meglio, altre volte, vedendo di striscio la tv o i social persone che osano aprir bocca ovunque, devo dire di no. Pessimismo cosmico. In quei casi mi verrebbe voglia di offrirmi come cavia per colonizzare Marte. L’ultima isola remota da sognare.