Aborto farmacologico, dopo una settimana di acceso dibattito, che ha finito per varcare i confini nazionali, al di là di come la si pensi di fronte ad un tema estremamente complesso sul piano etico, tre cose sono emerse con evidenza. Il silenzio (con poche eccezioni) delle donne, a parte quelle politicamente impegnate, nei partiti o nelle associazioni. La strumentalizzazione ideologica del tema dell’aborto, da entrambi gli schieramenti. Che ha finito per fare dell’Umbria, ancora una volta nell’ultimo anno, il terreno di scontro ideale. E l’ennesima controprova di quanto sperimentato già nell’emergenza Coronavirus: la divisione dei poteri tra Stato e Regioni, così, non funziona e non ha senso. Troppo esposto alle variazioni politiche delle maggioranze di governo.
Qualcuna, tra quelle donne più o meno direttamente impegnate in politica, l’ha anche osservato pubblicamente: ma le donne, quelle “normali”, dove sono? Certo, sui social commentano con fervore ora questo ora quell’altro articolo sul tema dell’aborto farmacologico, tornato di grande attualità dopo la delibera con la quale la Giunta regionale impone il ricovero ospedaliero per l’assunzione della pillola RU 486. Una vicenda commentata anche da Saviano, che ha tuonato contro il ritorno al Medioevo. Molte donne umbre saranno tra le migliaia che hanno firmato le varie petizioni online contro il provvedimento.
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Ma le donne, le giovani che hanno da poco scoperto la sessualità, o quelle che sono madri, quelle che hanno magari vissuto la dolorosa esperienza dell’interruzione volontaria di gravidanza, cosa pensano del provvedimento? Cos’hanno intenzione di fare? E dov’erano quando le due ultime Giunte regionali, guidate da donne (anche se di schieramenti politici diversi) deliberavano, in modo opposto, per regolamentare l’utilizzo dell’aborto farmacologico?
Due le donne al comando protagoniste in Umbria di questa vicenda. Diverse per storie personali e sensibilità politica.
L’ex governatrice Catiuscia Marini, al di là dei “desiderata” delle maggioranze di centrosinistra che ne hanno retto il Governo per 9 anni, ha per propria convinzione sempre seguito “da sinistra” tematiche sociali come quelle, ad esempio, delle pari opportunità, delle discriminazioni sessiste e, appunto, dell’aborto farmacologico. Dovendo superare anche resistenze nel suo partito.
La sua Giunta il 4 dicembre 2018 ha adottato una delibera che consentiva, in alcune strutture ospedaliere, l’assunzione della pillola RU 486 in regime di day hospital.
L’attuale presidente, Donatella Tesei, già senatrice della Lega ma soprattutto con una storia politica convintamente di destra, ha annullato quella delibera, con un ulteriore provvedimento che, eliminando questa “deroga” alla norma generale nazionale, stabilisce che il ricorso alla pillola abortiva possa avvenire solo a seguito di ricovero ospedaliero, secondo le linee di indirizzo del Ministero basate sul parere espresso dal Consiglio superiore di sanità nel marzo del lontano 2010. Dieci anni fa.
Dopo 10 anni, l’attuale ministro della Salute Speranza, a seguito del dibattito generato in Umbria dalla delibera di una settimana fa, ha chiesto un nuovo parere al Consiglio superiore di sanità. Nuovo parere di fronte al quale, ha assicurato Tesei, la sua Giunta sarà pronta a “ricalibrare” la delibera.
Perché in questi 10 anni nessuno al Ministero si è accorto che, a seguito dei vari provvedimenti assunti dalla Regioni, a una donna veniva somministrata la pillola RU 486 in day hospital, mentre per un’altra che si rivolgeva ad una struttura al di là di un confine regionale veniva disposto il ricovero ospedaliero.
Confini regionali che diventano veri e propri solchi di diritto e di cultura. Un po’ come avvenuto nei tre mesi del lockdown, quando parenti di Chiusi e di Castiglione del Lago dovevano vedersi al di qua e al di là del ponte che segna il confine tra Umbria e Toscana.
Ma soprattutto, con le varie amministrazioni regionali che di fronte alla pandemia Covid-19 sono andate in ordine sparso, nella strategia di test e tamponi, nella gestione delle strutture ospedaliere e delle Rsa. E con il Governo centrale che, di fronte alle resistenze dei governatori, ha finito spesso per livellare tutti nei provvedimenti in cui, invece, c’era magari bisogno di differenziare.
Con le indicazioni sull’aborto farmacologico il pasticcio tra Stato e Regioni si ripete. Perché qui non si tratta di lasciare legittimamente alle Regioni e alle Aziende sanitarie la gestione organizzativa dell’interruzione volontaria di gravidanza farmacologica. A seconda della strada intrapresa si cambia, consistentemente, la procedura a cui la donna deve sottoporsi. Con tutte le conseguenze, personali prima ancora che sociali, per la donna stessa.
C’è poi chi, in questi giorni, parla anche di differenze sul piano economico. Certo, i conti in sanità devono tornare, ne vanno dei bilanci delle Regioni. Ma sinceramente, di fronte ad un tema di così grande rilevanza, giustificare il ricorso o meno al ricovero ospedaliero con i 3mila euro da sborsare a fronte dei 5 euro (dicono) del costo della pillola somministrata in regime di day hospital, appare del tutto marginale.
Visto il numero – ancora minimo rispetto a molti altri Paesi europei – del ricorso alla pillola abortiva in Italia e in Umbria, il bilancio, nell’uno o nell’altro caso, potrà essere aggiustato risparmiando o investendo su qualche altra voce.
A portare nell’agenda politica umbra il tema dell’aborto (o quantomeno ad accelerare quanto promesso ai propri elettori da partiti dei centrodestra e associazioni per la vita) c’ha pensato l’emergenza Coronavirus.
Il 13 maggio scorso, con l’Italia che si prepara ad affrontare la Fase 2, la Giunta regionale adotta una delibera sulla gestione delle strutture sanitarie. Nella quale, tra gli altri provvedimenti, citando il decreto ministeriale del 3 marzo, si invitano le strutture sanitarie a promuovere maggiormente l’interruzione di gravidanza farmacologica rispetto all’intervento chirurgico. Prospettando, per limitare i rischi di contagio ma anche per la salute della donna e per limitarne i disagi, l’assunzione a domicilio del farmaco attraverso una prestazione ambulatoriale.
E più o meno in quei giorni l’opposizione chiedeva alla Giunta comunale di Perugia, di centrodestra, la possibilità dell’assunzione in regime ambulatoriale della pillola RU 486 visto che l’ospedale cittadino non è tra le strutture individuate per il day hospital.
Per la maggioranza di centrodestra, che ha bocciato l’ordine del giorno, si è trattato di un tentativo di sdoganare “l’aborto facile” a domicilio. E probabilmente è vero che l’emergenza Covid ha prospettato alla sinistra l’opportunità di portare a casa un obiettivo a cui guarda da tempo, cioè quello di favorire ulteriormente il ricorso all’aborto farmacologico.
E si arriva così al 10 giugno, quando con l’avvio della Fase 3 dell’emergenza Coronavirus, la Giunta Tesei con una nuova delibera annulla non solo quanto previsto un mese prima, ma anche il provvedimento della precedente amministrazione di centrosinistra.
Riportando l’Umbria a quanto avviene nella maggioranza delle Regioni italiane, dove l’aborto farmacologico avviene solo attraverso ricovero ospedaliero.
Il primo a dare la notizia della cancellazione della delibera Marini è stato l’antiabortista senatore Simone Pillon. E tanto è bastato per dire che Tesei ha dovuto pagare la cambiale firmata in campagna elettorale alla destra ultraconservatrice. Figurarsi, il solo nome di Torquemada Pillon ha infiammato ancora una volta le femministe più convinte.
E poi il solito gioco delle parti degli esponenti politici, pur tra rumorosissimi silenzi. Un gioco nel quale si fa a gara, a parole, a chi difende di più la donna.
Certo, il provvedimento – a differenza di molti altri – stavolta non è stato comunicato dall’ufficio stampa della Regione. Così come si è parlato dell’abrogazione del regime di day hospital precedentemente consentito, ma senza far cenno alle norme di maggio previste dalla stessa Giunta di centrodestra. Tant’è che il Popolo della famiglia, venuto a conoscenza del doppio atto, ha parlato di delibera “frettolosa” nel caso di quella di maggio. Chiedendo l’apertura di un tavolo di confronto sul tema.
L’impressione è che per Donatella Tesei la vicenda non fosse in cima alle preoccupazioni politiche, ma arrivi piuttosto come una grana. Un’impressione che pare trovare conferma nell’intervista telefonica concessa dalla governatrice umbra a Michela Murgia nel programma Tg Zero di Radio Capital. Con Tesei che, incalzata dalle domande, ha mostrato di non aver ben studiato numeri e casistiche del tema in questione.
Tesei continua a ripetere che l’Umbria si è allineata alle direttive nazionali. Cosa che è vera, visto che prima era stata una delle poche Regioni a fare un passo in vanti, o indietro, a seconda dei punti di vista.
Per questo, l’iniziativa del ministro Speranza, che ha chiesto un nuovo parere al Consiglio superiore di sanità, può essere un assist per Tesei. Che anche nell’emergenza Covid ha seguito le linee del Governo, senza forzature. “Siamo pronti, ovviamente, a rimodulare la nostra delibera in base alle considerazioni del Consiglio superiore di sanità” ha concluso la governatrice la sua nota con cui difendeva il provvedimento della Giunta.
Ancora una volta, dunque, la piccola Umbria diventa terremo di scontro ideologico e laboratorio politico. Dal “suo” caso, insomma, potrebbero addirittura cambiare le direttive nazionali sulla pratica dell’aborto farmacologico.
Del resto da queste parti, negli ultimi 12 mesi, si è assistito alle giravolte giustizialiste e poi ancora garantiste del Pd. Si è sperimentata la futura alleanza giallorossa di Governo. Si è assistito all’autodistruzione del Movimento 5 stelle. Sono emerse tutte le difficoltà della Lega nella difficile trasformazione da movimento salviniano a partito strutturato sul territorio.
A proposito: il coordinatore della Lega in quella Perugia dove la sinistra ha provato a forzare sull’aborto farmacologico “a domicilio” è proprio il senatore Simone Pillon.