Luca Biribanti
Sono arrivati ieri i primi migranti di nazionalità tunisina accolti dalla città di Terni. 52 in tutto, compresi in un'età tra i 25 e i 30 anni, tutti in buona condizione di salute e dislocati in tre diverse zone del comune: 32 a Collescipoli, 10 a San Gabriele e 12 alla casa di accoglienza “Parabbi” a Rocca San Zenone. Già prima del loro arrivo si era sollevato un polverone mediatico e tra lo scetticismo generale qualcuno aveva alzato la voce sul fatto che fossero troppo numerosi, che avrebbero creato problemi. A Terni c'erano le stesse paure che in questi giorni sono nei pensieri degli italiani. Difficile comprendere gli stati d'animo e le intenzioni di questi ragazzi, nostri 'vicini di casa' eppure 'estranei' alla nostra vita.
Calzano scarpe “Nike” ai piedi, felpe “Reebok” e “Adidas”, tagli di capelli alla moda: molti parlano italiano, conoscono la nostra tv, tifano per le nostre squadre di calcio. TO® ha avuto modo di vedere da vicino la realtà che “spaventa” chi sembra aver dimenticato che proprio il nostro è stato un popolo di emigranti. Ieri pomeriggio l'appuntamento presso la casa d'accoglienza “Parrabbi” per parlare con qualche ragazzo ospitato dalla Caritas. L'accoglienza è stata freddina. “Non c'è il responsabile – mi dice il custode della casa – non si può parlare con i ragazzi. Devi aspettare un mezzoretta”. Aspettiamo un'ora buona, appoggiati a un muretto proprio dalla parte opposta al cancello dell'edificio. I ragazzi mi guardano incuriositi, uno di loro si avvicina al cancello, accenna ad un saluto. Il responsabile non arriva, ma uno dei ragazzi decide di venirmi incontro, esce dal cancello, si avvicina e mi saluta.
Karim, 28 anni, da 6 in Italia, parla un italiano sciolto e, senza il bisogno di fare domande, inizia a raccontare la sua storia. È un muratore e artigiano, è arrivato attraversando l'Italia, dalla Sardegna, passando per Milano fino a Terni. Per 2 volte è stato rimpatriato come clandestino, ma è tornato la terza volta pagando mille e 800 euro uno scafista che lo ha portato sulle coste baresi.
“Sono un muratore, ho una partita iva, ma ora risulto come clandestino perchè la prima volta che sono stato identificato ho lasciato un nome falso. Non voglio stare in Tunisia, non c'è libertà, non c'è lavoro e non c'è futuro. Il governo è corrotto, i poveri finiscono tutti schiacciati come mosche da chi ha i soldi”. Poi si ferma, punta il dito sulla fronte “Vedi questa?”, dice mostrando una cicatrice che gli solca l'arcata sopraccigliare.
“Me l'hanno fatta i familiari della mia ex ragazza. Ci siamo lasciati tranquillamente come 2 ragazzi fanno normalmente. Ma suo padre aveva i soldi e mi ha fatto picchiare. Ogni mattino che mi alzo e mi guardo allo specchio non posso evitare di guardare questo segno”. Gli chiedo “Torneresti in Tunisia?” “Assolutamente no. Preferirei restare in Italia in carcere, piuttosto che essere libero lì. Qui c'è libertà, posso fare il mio lavoro, la gente mi aiuta”. Anche gli altri ragazzi che ci osservano al di là del cancello si fanno coraggio. Si avvicina un secondo ragazzo che non parla l'italiano.
Ha gli occhi buoni, Karim ci fa da interprete. È J., 26 anni, anche lui arrivato dalla Tunisia fuggito dalle rivolte e dalla povertà. Frequentava l'ultimo anno di università a El Jem, studiava informatica. Lui ha dei parenti in Inghilterra e appena ricevuto il permesso di soggiorno temporaneo aspetterà lo zio che lo verrà a prendere e lo porterà via. Si aspetta di concludere l'università e di costruirsi una famiglia, un futuro. Guarda la moto parcheggiata vicino a noi, mi chiede se può salirci un attimo. Monta su e assapora il gusto della libertà, stringe il manubrio, chiude gli occhi. Quando scende è commosso, si vergogna di farlo vedere e si allontana. Dopo qualche minuto arriva il pulmino della Caritas che porterà i ragazzi alla mensa di Via Ciaurro, dove mangeranno insieme agli altri. L'autista mi invita a seguirli. Sul piazzale della mensa ci sono già tutti, sono in fila e passano uno per volta per fare la foto d'identificazione che sarà inviata alla Questura. Scherzano, ridono, sono di buon umore. Consumano la cena nella sala mensa con calma, parlano a bassa voce, mangiano con appetito, ringraziano il personale che li tratta con gentilezza e a fine pasto aiutano a ripulire un pò. Durante la cena conosciamo altri 2 ragazzi che parlano un pò di italiano. Diner ha 31 anni, “Siamo coetanei” gli dico, lui “sì ma io sono vecchio e tu sei giovane”, “Io sono più fortunato”, rispondo e ridiamo insieme. Anche Diner ha pagato mille e 800 euro per arrivare in Italia su un barcone con altri 200. “In Tunisia manca tutto. Per noi giovani non c'è futuro, vogliamo solo un futuro. Io ho amici in Francia, appena potrò mi trasferirò là. Cercherò un lavoro, magari una ragazza, voglio dei figli”.
Intanto si avvicinano anche gli altri, tutto vogliono parlare con me, ma a prendere la parola è Rida, uno dei più anziani del gruppo con i suoi 42 anni. Anche lui viene da Tunisi, con una traversata pagata allo stesso prezzo degli altri. “Nella mia barca eravamo in 300, tutti pressati in condizioni disumane, abbiamo navigato per 4 giorni e 4 notti. Lungo la strada ho perso alcuni amici, sono morti. Ho visto gente che veniva buttata in mare, mangiata dai pesci. Se affrontiamo un viaggio così non è per venire a fare i delinquenti in Italia, cerchiamo un futuro”. “Come lo vedi il tuo futuro?” gli chiedo. “Non lo so, penso che me ne andrò a Stoccolma, ho degli amici lì e poi ci sono belle donne”. Qualcuno traduce e il gruppetto ride fragorosamente. È ora di andare, gli autisti dei pulmini richiamano i ragazzi, ne accompagno un paio lungo la strada. Uno dei 2 prende una pigna da terra e comincia a fare palleggi. 4, 5, 6 palleggi, “Sei un calciatore?”, “Sì. Sdomani gioca l'Inter, chissà quanti gol prende?”. E' ora di salire sul pulmino. Dal finestrino mi fa segno con la mano, 4 a 0, e ride ancora. Forse ha già capito che il calcio in Italia “cura” molti mali, ma ne lascia molti, molti di più senza risposte.
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