di Francesca Cenciarelli
Nastri d’acqua fatti di luce. Come i nastri delle bobine che contengono il diario della vita di Krapp. Questo è l’iniziale impatto emotivo che la Prima De ”L’ultimo nastro di Krapp”, andata in scena stasera, ha evocato; diretta e interpretata da Bob Wilson che non smette di stupire. Chiaroscuri austeri, linee verticali come la pioggia che precisa e implacabile scende sui ricordi di quest’uomo solo, Krapp, il quale, giunto alla soglia dei 70 anni, si prepara a registrare desideri, istanti ed emozioni del suo anno di vita appena trascorso su un nastro audio. Prima di incidere il suo passato prossimo riascolta una bobina del suo passato remoto: la sua stanza è un enorme archivio pieno di nastri con la sua vita registrata anno per anno. Nell’interpretazione visuale che Wilson fa di questo “poema lirico della solitudine” che Beckett scrisse nel 1958 – come afferma P. Bertinetti nella “Collezione di teatro” (1994, Einaudi) – tutto è archiviato, catalogato, registrato e sembra che il protagonista abbia preferito la “medializzazione” della propria esistenza più che l’esistenza stessa. Nella versione wilsoniana non si evince che Krapp sia un vecchio clown–scrittore; appare piuttosto come un “contabile della propria vita”: anche il cibo che consuma nel lungo prologo muto è nei cassetti di una scrivania-archivio, vicino alle bobine, come se anche i bisogni primari fossero archiviabili. Oggi Wilson è tornato in scena, al Caio Melisso, anche come attore: gesto impeccabile e presenza pregnante, sembrava che la solitudine del personaggio “straripasse” dal palcoscenico e toccasse fisicamente gli spettatori. Una rottura emotiva della quarta parete. Krapp ride del se stesso ormai passato, delle speranze, dell’ingenuità e delle aspettative che, rispetto alla vita, aveva da giovane. Al tempo stesso prova rabbia perché, quel ragazzo sciocco, che era ed ora non esiste più, ha rinunciato all’unica reale possibilità di gioia che la vita gli ha offerto: un amore, una donna, i suoi occhi incredibili che contenevano “tutte le carestie e tutta la cuccagna di questa palla di fango che è la terra”. Krapp ascolta così più volte la stessa bobina, sembra rivedere quegli occhi, rivivere il suo corpo steso su quello di lei: lo vede anche il pubblico e la solitudine diventa sempre più grande, come i cerchi concentrici del sasso lanciato nell’acqua. Lo spettacolo è colmo d’acqua: una pioggia torrenziale all’inizio, il lago su cui fluttuava la barca che trasportava il ricordo del suo amore, il suono di un rubinetto, le lacrime di rabbia che sentiamo scorrere dietro i suoi occhi; l’applauso scrosciante che ha letteralmente “allagato” il teatro a fine spettacolo.