“Sorellanza”, questo il concetto chiave per comprendere “Antigone in exilium”, l’opera de “La Mama” in scena ieri sera all’Auditorium della Stella per il Festival Spoleto 59.
La sapiente regia di Bernardo Rey interpreta il pensiero filosofico di Maria Zambrano che ha restituito al pubblico un’Antigone complementare rispetto al modello sofocleo, dove prevale l’idea del rifiuto di una condanna all’oscurità eterna, quella inferta da Creonte alla figlia dannata di Edipo. La cecità, la dannazione della stirpe, il ghenos maledetto, non sono condizioni irreversibili come nella religiosa visione dell’ordine cosmico sofocleo: la mistica irrompe sulla scena, concedendo ad Antigone una nuova rinascita, la possibilità di uscire dalla tenebra del ciclo tebano pensato dal drammaturgo greco.
Il coraggio dell’eroina non è l’affrontare la morte accettando il tragico esito del dissidio tra legge di stato e legge divina, ma nell’accettare la morte per poter rinascere, senza temere la memoria.
La componente mistica porta al delirio finale di Antigone che, attraverso la parola e l’esistenza poetica, dimostra che nella storia è necessario che si compia il sacrificio, ma non di essere umani, il sacrificio di una parte di sé. Ecco dunque che il coro, composto da migranti rifugiati in Italia, trova la sua giustificazione nella condizione dell’esilio al quale è costretta Antigone, in sospeso tra la vita e la morte.
Aver iniziato la rappresentazione mantenendo la parodo (entrata del coro sulla scena, ndr), è stata una scelta di grande impatto drammaturgico; la corifea è alter ego di Antigone, forse la sorella di Maria Zambrano, Araceli, quella sorella grazie alla quale la filosofa ha scoperto il sentimento di “sorellanza”, lo stesso che spinge Antigone nel baratro di Sofocle e lo stesso che viene richiamato nei confronti del coro. “Chi ha perso tutto, non ha paura di barriere e muri” – dice il coro in una delle sue apparizioni di metateatro. Dialoga con il pubblico, lo invita a riflettere, a non giudicare, a compiere quella piccola parte di sacrificio di sé stessi e non quella di altri uomini. È la lezione del dolore e della sofferenza.
L’adattamento drammaturgico di Nube Sandoval è sostenuto dalle proiezioni video di Paul Harden e Grazia Genovese, dalla fotografia Cecilia Posada, dal design grafico Sebastian Palomá, dalla scenografia e maschere Bernardo Rey, dai costumi Aurora Ghielmini e dalla musica Ermanno Ghisio Erba e Teatro Cenit, sono gli elementi che rendono moderno il dramma sofocleo che ha trovato nella sala dell’auditorium un habitat naturale di grande impatto emotivo. Le installazioni sonore e visive sono il ‘deus ex machina’ che trascinano lo spettatore fuori dal contesto mitico per inchiodarlo all’orrore dei nostri giorni. Il sangue delle vittime degli esodi africani, madri senza figli, padri senza discendenza. E con violenza si torna nel mito, attraverso la simbologia della maschera che riporta alla memoria di Antigone la nostalgia della vita non vissuta e la certezza della morte.
Il fuoco di Tebe, la terra della tomba, il cielo del mare, sono i tre mondi che il sacrificio d’amore di Antigone ricopre: l’inferno da dove trovare nuova vita, la condanna all’esilio sulla terra e il mondo divino che concede all’eroina una nuova esistenza.
Antigone è una donna moderna, ancora vergine quando il dramma la coglie; il suo pensiero è ancora puro, la sua coscienza trasparente. Queste condizioni le permettono una ricerca della verità, di lasciare la sua voce come limes tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
© Riproduzione riservata