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Coobec, in 15 su 40 rischiano il licenziamento

Ben 15 restauratori rischiano di essere licenziati a marzo e forse anche altri potrebbero fare la stessa fine nei prossimi mesi: è allarmante la situazione che si prospetta alla Coobec, la storica cooperativa di beni culturali di Spoleto, presieduta da Rolando Ramaccini, apprezzata in tutta Italia ma da qualche anno in crisi. Dei circa 40 addetti attuali (ma in passato sono stati anche un centinaio) per ben 15 si profila la messa in mobilità, con la cassa integrazione straordinaria che scade il 5 gennaio.

Allarme del sindacato – Che la situazione alla Coobec non fosse rosea era risaputo. Dopo l’onda lunga dei fondi post sisma del 1997, il settore dell’edilizia tutto si è fermato e non va molto meglio per quello del restauro, ancorato ad interventi straordinari piuttosto che alle ordinarie manutenzioni praticamente inesistenti in Italia, nonostante ve ne sia un enorme bisogno. La cooperativa da tempo ha attivato la cassa integrazione, prima ordinaria e poi straordinaria. Un ammortizzatore sociale, quest’ultimo, che scadrà ad inizio gennaio. Rimane qualche settimana di “cassa” ordinaria, che si vorrebbe sfruttare per arrivare alle porte della primavera, ma l’azienda è intenzionata a ridurre drasticamente i suoi addetti, di circa il 40%, con il rischio che la ristrutturazione aziendale comunque non basti. A lanciare l’allarme è stata la Fillea Cgil, la categoria sindacale che si occupa di edilizia. La Coobec infatti applica il contratto nazionale degli edili, quello più affine non esistendone uno specifico per i restauratori. Presenti alla conferenza stampa per fare il punto della situazione e lanciare un vero e proprio Sos alle istituzioni Gianluca Menichini e Cristian Benedetti  della Fillea e le delegate sindacali nella cooperativa (Rsa) Annalisa Bartoli e Debora Napolitano.

Sollecitate le istituzioni – Ad annunciare i tagli previsti sono stati gli stessi vertici della Coobec. “Qualche settimana fa – ha spiegato Menichini – l’azienda ci ha detto che la sua situazione non è più rinviabile ed è intenzionata ad intervenire strutturalmente. Siamo preoccupati sia perché 15 persone rischiano di perdere il lavoro, mentre finora si parlava di 7-10 esuberi, sia perché in questo modo si smonta quasi totalmente il concetto alla base di questa azienda, un esempio da seguire a livello nazionale anche per la sua strutturazione“. Per questo la Fillea ha già avuto un incontro con il sindaco Fabrizio Cardarelli e ne ha chiesto uno in Regione, all’assessore regionale allo sviluppo economico Fabio Paparelli, informando però anche quello alla cultura, Fernanda Cecchini. “Questa situazione – ha aggiunto Menichini – deve essere gestita dalla Regione, che in questo campo potrebbe dare delle risposte significative con una programmazione degli interventi. Rischiamo di perdere una realtà  importante del nostro territorio, intanto siamo impegnati a ridurre gli esuberi“.

Centro regionale “snaturato” – Il paradosso è che proprio la Regione non sembra tutelare un settore sul quale invece dovrebbe puntare e su cui l’Umbria ha fatto scuola nel post terremoto del 1997. Nel post sisma la Coobec, hanno ricordato le due Rsa, aveva operato il trasferimento di più di 3.000 beni danneggiati in luoghi precari, tra cui spazi della stessa Coobec. Beni culturali di vario tipo provenienti da un po’ tutta la fascia appenninica. Per ospitarli e per affrontare in generale l’emergenza in casi di calamità naturali per quanto riguarda le opere d’arte, la Regione Umbria aveva dato vita proprio a Spoleto al “Centro operativo per la conservazione, la manutenzione e la valorizzazione dei beni storico artistici, archivistici e librari”, a Santo Chiodo. Dopo vari accordi quadri di programma e slittamenti di tempi, quella struttura – per cui sono stati spesi milioni e milioni di euro, con spazi concepiti appositamente per tutelare i beni culturali – finalmente è stata utilizzata a pieno dalla Regione. Peccato non per ospitarvi le opere culturali di vario genere (ancora sparse un po’ in tutto il territorio) ma per trasformarlo, anche se ufficialmente soltanto per due anni, nel magazzino-archivio della Regione. Di recente il consigliere regionale di opposizione Claudio Ricci aveva cercato di scongiurare tale ipotesi con una mozione, ma non sembra sia servito a molto.

Politiche assenti o scarse – Il Centro per i beni culturali di Santo Chiodo  è solo la punta di un iceberg. Il problema è che gli enti non investono in manutenzione ordinaria, intervenendo solo quando ci sono danni da riparare. Eppure una regione ed un Paese che puntano sui beni culturali per la promozione turistica dovrebbero agire diversamente. In Italia, però, sembra funzionare in un altro modo. Esempio è, come ha spiegato Annalisa Bartoli, il restauro del Colosseo, con la gara rivolta ad aziende edili e non specializzate nel restauro di monumenti. “Si punta solo al massimo ribasso e non alla qualità, anzi si va sempre più verso una deregolamentazione in questi campi” è stato ricordato dalla Fillea. Eppure un’azienda come la Coobec (ma magari anche altre di pari livello nel resto d’Italia), che ha lavorato alla Valle dei Templi di Agrigento, a Pompei, alla Torre di Pisa, sulla Sindone di Torino, dovrebbe in linea teorica veder riconosciute le sue competenze e non essere messa sullo stesso piano di “semplici” aziende edili. Qualcosa potrebbe muoversi con gli Albi dei fornitori istituiti sia da Regione che dal Comune di Spoleto (come altri), che prevedono affidamenti diretti sotto una certa soglia. Misure che potrebbero premiare, si spera, la qualità e non più solo le logiche economiche. Altre Regioni (come il Veneto, ha ricordato Cristian Benedetti) fanno già molto per facilitare le imprese locali. Per la sopravvivenza della Coobec, però, questo potrebbe comunque non bastare.