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Umbria, importante scoperta per cura dell’emofilia di due ricercatori Telethon

Redazione

Umbria, importante scoperta per cura dell’emofilia di due ricercatori Telethon

Scoperto come evitare rigetto terapia sostitutiva | La ricerca di Francesca Fallarino e Alfonso Iorio pubblicata su The Journal of Clinical Investigation
Gio, 17/12/2015 - 12:52

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Un gruppo di ricerca internazionale grazie anche a un finanziamento Telethon ha individuato una molecola che può bloccare gli anticorpi scatenati dall’organismo a seguito delle infusioni del fattore mancante a cui si sottopongono le persone affette da emofilia A.
Il lavoro è stato coordinato da Francesca Fallarino del Dipartimento di Medicina sperimentale dell’Università di Perugia e da Alfonso Iorio della Mc Master University (Hamilton, Canada) in collaborazione con l’Associazione Italiana dei Centri di Emofilia (AICE) e pubblicato sulla rivista scientifica The Journal of Clinical Investigation.

L’emofilia è una malattia ereditaria dovuta a un difetto della coagulazione del sangue e si distingue in due forme, A e B, a seconda del fattore mancante (rispettivamente VIII nella A e IX nella B) che impedisce al sangue di coagularsi correttamente, provocando così gravi emorragie. I pazienti con emofilia ad oggi riescono ad avere una buona qualità di vita se trattati con la terapia sostitutiva, che consiste nell’infusione del fattore mancante, prodotto per via biotecnologica, e che si rende necessaria nelle forme più gravi anche quotidianamente.
Tuttavia, nel tempo un numero significativo di pazienti (circa il 20-30%) possono sviluppare anticorpi diretti contro la terapia, rendendola  così inefficace.

I ricercatori hanno messo in evidenza che i pazienti emofilici che sviluppano anticorpi contro il fattore VIII presentano un difetto nella produzione di chinurenina, una molecola che svolge un importante ruolo nella risposta immunitaria. Provando così a somministrare la chinurenina ad animali affetti da emofilia A, hanno osservato che questa molecola è in grado di impedire lo sviluppo di anticorpi contro il fattore VIII e preservare così l’efficacia della terapia.

“I risultati di questo lavoro – spiega Francesca Fallarino, docente del Dipartimento di Medicina sperimentale dell’Università di Perugia – pongono così le basi per la messa a punto di nuove strategie terapeutiche in grado di prevenire la formazione di anticorpi che rendono oggi parzialmente inefficace la terapia sostitutiva in una certa percentuale di pazienti colpiti da emofilia A”.

Si tratta di un risultato importante per i pazienti di oggi, in attesa delle nuove prospettive aperte su altri fronti dalla ricerca Telethon, prima fra tutte la terapia genica: grazie a questa tecnica, infatti, in futuro si potrebbe correggere il difetto alla base dell’emofilia tramite l’utilizzo di un virus opportunamente modificato in grado di trasportare una versione corretta del gene difettoso in questi pazienti. Nell’attesa, però, è molto importante studiare anche come migliorare l’efficacia della terapia attualmente disponibile, che rappresenta il trattamento di prima scelta per questa malattia.
Emofilia
L’emofilia è una malattia ereditaria dovuta a un difetto della coagulazione del sangue, il processo attraverso cui, in caso di lesioni ai vasi sanguigni, il sangue forma un “tappo” che ne impedisce la fuoriuscita. La malattia dipende dall’assenza o carenza di uno dei fattori coinvolti nella coagulazione. Se ne distinguono due forme: la A, in cui manca il fattore VIII, e la B, in cui manca il fattore IX. I sintomi sono emorragie più o meno gravi a seguito di traumi, ferite, operazioni chirurgiche, oppure emorragie interne apparentemente spontanee. La gravità dei segni clinici dipende dall’entità del deficit del fattore della coagulazione.
Ai fini della terapia, è molto importante distinguere tra le due forme, tramite esami di laboratorio oppure conoscendo la storia familiare del paziente. L’emofilia dipende da alterazioni dei geni localizzati sul cromosoma X. Per questo, la malattia si trasmette con modalità recessiva: in genere solo i maschi (che hanno un solo cromosoma X) presentano i sintomi, mentre le femmine portatrici sono solitamente asintomatiche o possono in alcuni casi presentare forme più leggere della malattia (perché possiedono un altro cromosoma X oltre a quello mutato).
La diagnosi si basa sui test della coagulazione che rivelano un allungamento dei tempi della coagulazione del sangue. Se in una famiglia si conoscono le mutazioni responsabili della patologia, è possibile effettuare la diagnosi prenatale.

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