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Le interviste di TO, Cristina Bonucci 20anni di arte da Spoleto

L’artista Cristina Bonucci, spoletina e mai migrata verso altri lidi, festeggia quest’anno venti anni di cammino artistico. La Bonucci si forma accademicamente all’Università di Perugia e a “La Sapienza” di Roma, e dopo un percorso lavorativo nell’ambito della comunicazione, nel 1994 scopre ed inizia a coltivare i suoi interessi per l’arte. La sua personalità, complessa e ricca, l’ha portata a cimentarsi con le discipline fondamentali del disegno, della pittura e della scultura, senza tralasciare la performance come espressione artistica, a diretto contatto con il pubblico. In occasione dei venti anni TO ha incontrato la Bonucci per parlare con lei del suo percorso artistico, di come sia iniziato e di come si è sviluppato nel tempo, soffermandoci, in modo particolare, sulla sua produzione artistica legata agli anni novanta, fino all’ingresso ufficiale al Festival dei Due Mondi.
TO-Innanzitutto vorremmo ripercorrere con lei le tappe del suo cammino professionale, dagli inizi fino alla fine degli anni novanta
CB- E’ la prima volta per me che parlo pubblicamente, e non soltanto del mio lavoro. Non sono abituata a farlo ma sono felice di festeggiare con questa chiacchierata insieme a TO i miei venti anni di cammino artistico.
TO-Se non ricordiamo male, la sua formazione accademica è ben lontana dal mondo dell’arte. Come si diventa artisti senza avere una preparazione di base?
CB-Si, in effetti sono laureata in tutt’altro campo ma nel 1994 si delineò chiaramente la mia strada. L’arte non è frutto di studi accademici ma è un dono. La storia ce lo ricorda molte volte, in tutti i tempi e in diversi spazi.
TO-Come ha capito che questa sarebbe stata la sua vita? Ricorda un momento preciso?
CB- Si, lo ricordo come fosse ieri: mi trovavo in Casa Mahler, qui a Spoleto, dove mi ero temporaneamente trasferita per i lavori di ristrutturazione della mia abitazione. Era Marzo del 1994. Marina Mahler mi propose di vivere in casa sua per il tempo dei lavori e io accettai volentieri, essendo amiche già da alcuni anni. Ricordo che ancora prima di vivere in casa sua, incontravo spesso, lungo il mio cammino, molti artisti, con i quali condividevo con grande entusiasmo e passione molte serate, senza minimamente sospettare di avere doni artistici e diversi da quelli accademici, per i quali avevo già iniziato la carriera universitaria. Stare in Casa Mahler, ha significato per me entrare nel mondo della cultura e dell’arte internazionale, come si può ben immaginare e, … forse all’improvviso, una mattina mi svegliai pensando che dovevo trasferire nell’arte ciò che pensavo e custodivo nel cuore.
TO-Quale è stata la prima forma espressiva che ha usato?
CB-La pittura. Una sera eravamo a cena tutti insieme e c’era Salvatore Sciarrino seduto accanto a me. Chiacchierando, lo guardai e gli dissi, “Salvo, voglio dipingere. Ma in verticale”. Intendevo dire che desideravo stendere una grande tela su parete e dipingere stando in piedi. Marina, figlia d’arte, e Salvatore, compositore di musica, intuirono all’istante e mi dissero, “Inizia”. E io iniziai, senza mai più smettere.
TO- Quanti anni aveva?
CB- Ventinove.
TO- Ha detto che aveva anche iniziato la carriera universitaria. Ci Spiega meglio?
CB-A Perugia ho conseguito il Diploma di Laurea come Assistente sociale e ho discusso una tesi su Bronislaw Malinowski, il fondatore dell’Antropologia sociale. Malinowski, durante i suoi soggiorni presso gli Aborigeni, aveva scritto un diario privato che era stato pubblicato postumo in tutte le lingue, tranne in quella italiana. Amavo molto questo personaggio pieno di contraddizioni e decisi di preparare la tesi su di lui. Il mio lavoro piacque molto a Tullio Tentori, Docente ordinario alla Cattedra di Antropologia culturale de “La Sapienza” di Roma e Direttore della collana di Antropologia dell’ Armando Editore. Tentori, già molto in là con gli anni, mi propose di lavorare per lui e così curai per intero la versione italiana del “Giornale di un antropologo”, occupandomi della traduzione dalla lingua inglese, delle note e di una nuova biografia di Malinowski. Quando mi trasferii a Roma, per la Laurea in Sociologia, il mio libro era già divenuto testo di esame alla Cattedra di Antropologia culturale. Ho dovuto ri- studiare il mio lavoro! Furono molto simpatiche le facce dei miei colleghi, il giorno dell’esame!
TO-Mai pentita di aver abbandonato il mondo accademico?
CB- Mai. Mi dispiace soltanto di non aver avuto il tempo cronologico, quello interiore e le forze fisiche per fare l’una e l’altra cosa. Sono talmente innamorata della vita e dei doni ricevuti, che vorrei fare tutto e sempre. Ma sappiamo bene che questo non è possibile e che bisogna operare delle scelte per cercare di fare bene qualcosa.
TO-La sua prima mostra fu una collettiva a Piazza Garibaldi, e fu anche quella che fece scalpore con strascichi polemici a non finire. Furono sprecati fiumi di inchiostro, senza però mai approfondire veramente il senso di quella produzione.  Pensiamo, noi per primi, che dopo 20 anni sia il caso di farlo, dopo aver visto vermente di tutto in arte. Vuole parlarcene?
CB- Certo. Fui invitata da una Società di Perugia ad esporre le mie opere in una mostra collettiva che si teneva a Piazza Garibaldi, nella nostra Spoleto. In quel periodo, correva l’anno 1996, io stavo lavorando all’opera di salvezza che Dio ha iniziato con il popolo d’Israele e avevo realizzato delle opere, pittosculture e sculture, che raccontavano come e da chi gli Israeliti sono stati liberati da Dio. Esposi così la pittoscultura intitolata “Illuminazione” – un’opera in ceramica bianca e oro che raffigurava la Stella di Davide e che ancora oggi è il simbolo del popolo d’Israele, riportato anche nella bandiera di Stato – e a seguire mostrai altre quattro pittosculture che, partendo dalla Stella, arrivavano attraverso una scomposizione conseguenziale, al solo Triangolo bianco, intitolato “Oltre c’è solo la vita e il silenzio”, cioè la trasposizione astratta della Trinità, come Dio, nell’Antico Testamento, ci invita a fare, senza creare immagini di Lui. Questo è il motivo per cui ancora oggi molti artisti di origine e cultura ebrea non realizzano mai opere che raffigurano Dio, limitandosi a dare di Lui immagini astratte. Avevo poi creato alcune opere in ceramica che rappresentavano il fallo, simbolo del popolo egiziano che Dio sconfisse per liberare gli Israeliti. E’ noto che l’antica civiltà egizia riteneva che il mondo fosse stato generato da un atto di masturbazione del Dio Min, o Dio fallo, appunto, che per gli Egiziani politeisti era alla base della vita. Quindi la mostra raccontava l’ antitesi tra i due popoli e la storia della salvezza di Dio, per come la conosciamo dalla Sacra Scrittura e dai testi sull’antico Egitto.
TO- Spoleto rimase sconvolta, e non si sa quanto a ragione. Come ha vissuto quel clamore?
CB- Ero sorpresa e non capivo perché le persone vedessero soltanto le sculture falliche e non le pittosculture raffiguranti Dio e anche del fatto che non riuscissero a leggere la mostra nel suo insieme.
TO-Molte persone pensarono ad una provocazione per farsi notare.
CB: Non penso mai di provocare e-o di voler provocare. Piuttosto sono consapevole del fatto che ciò che penso e custodisco nel cuore è spesso provocante, poiché non vivo la vita superficialmente. Desideravo raccontare la storia della salvezza e l’ho fatto, mettendo in chiara luce chi è il nostro Dio e chi il dio di una civiltà pagana, come era quella egiziana antica.
TO-Ci sono stati aneddoti particolari legati a quei giorni della mostra?
CB-Ricordo che una mattina ero a Piazza Garibaldi, durante la mostra, e che mi si avvicinò una signora furibonda, accusandomi di aver messo opere blasfeme davanti alla Chiesa di San Gregorio. Le dissi, “Signora, lei ha visto e parla soltanto di quello che conosce. Mi dispiace, ma non sono responsabile della sua cecità e della sua non cultura”.
TO- E la risposta quale fu?
CB- Credo non abbia capito neanche la mia risposta, oltre che le opere. Poi se ne andò.
TO-Ricordiamo bene che alcuni giornalisti e laici provarono a contattare l’Arcivescovo Riccardo Fontana, per avere un suo parere sulla mostra. Ma il Presule non si pronunciò. Cristina, come ha letto il silenzio di Monsignor Fontana?
CB- Come segno di intelligenza e cultura dell’Arcivescovo. Sarei rimasta stupita del contrario. Non dimentichiamo che la Cappella Sistina presenta grandi nudi di Michelangelo e che, in Vaticano, è visitata ogni giorno da centinaia di persone. E non dimentichiamo neppure che un Arcivescovo conosce bene sia la civiltà del popolo eletto che di quello egiziano. E non sottovalutiamo neanche che Monsignor Fontana è uomo di grande cultura e preparazione, anche artistica.
TO-Cristina, lei è la sola artista di Spoleto, insieme a Giuseppe De Gregorio, ufficialmente presente al Festival dei Due Mondi. Come avvenne l’incontro tra lei e il Maestro Menotti?
CB-Era l’anno 1998 ed ero seduta sugli scalini del Teatro Caio Melisso, come ero solita fare sempre, per vedere la costruzione del palco per gli spettacoli di inizio Festival. Da sempre amo di più il backstage che le prime! Ricordo che indossavo una maglietta di cotone color lavanda, con molte margherite bianche e gialle in rilievo. Un signore molto alto, magro ma non troppo, e con un panama bianco in testa, mi si avvicinò e mi chiese se avevo anche un vestito con le rose rosse. Dissi di si e lui si presentò, “Sono lieto, signorina, di fare la sua conoscenza”, mi disse con un accento indecifrabile, “sono Julian Zugazagoitia, curatore delle mostre di arte visiva al Guggenheim di New York e del Festival dei Due Mondi e vorrei invitarla alla inaugurazione della mostra. Se son rose fioriranno”. Non ci pensai due volte, e ricordo gli risposi, “Il piacere è mio, signore, sono un’artista e verrò certamente!”.
TO-Ma lei non fu solo presente alla mostra come invitata ma anche come artista del gruppo.
CB-Si. Quando si dice che gli americani hanno una marcia in più è vero. Julian volle vedere subito i miei lavori e dopo dieci minuti eravamo nel mio vecchio studio. Le mie opere gli piacquero a tal punto che mi disse, “Allora non ti invito come ospite ma come artista”. Telefonò a Menotti ed entrai ufficialmente al Festival dei Due Mondi. Avevo trentatré anni ed ero e sono la più giovane artista presente e l’unica della Città, insieme a De Gregorio.
TO-Quale opere presentò in quella mostra?
CB-Proposi una Performance dal titolo “Omaggio a Yves Klein”, artista francese del Nuovo Realismo, con la quale riprendevo alcuni temi cari a Klein e proponevo la mia visione nuova dell’impronta, sino a renderla irriconoscibile.
TO-Cristina, ci fermiamo qui e le facciamo tanti auguri per un buon anniversario e molti anni ancora di lavoro e di successi.
CB-Grazie a tutti i lettori di TO e ai sostenitori del mio lavoro, quelli di ieri, di oggi e di domani.

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 LA SECONDA PARTE DELL’INTERVISTA A CRISTINA BONUCCI