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“Grazie Ingrao”, il ricordo lasciato da Alberto Provantini

Redazione

“Grazie Ingrao”, il ricordo lasciato da Alberto Provantini

Il lungo e commovente ritratto di Pietro Ingrao e il legame forte con l'Umbria, in un articolo di saluto scritto prima di morire
Ven, 02/10/2015 - 10:59

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di Alberto Provantini 

«Alberto, mi raccomando, salutami l’Umbria». Una pausa, e poi: «Ricordo quei luoghi che noi due conosciamo».

Con queste parole Pietro Ingrao mi lasciò il 30 marzo dell’anno scorso (siamo nel 2011, ndr). Gli avevo telefonato per gli auguri delle sue 96 primavere che l’anno prima festeggiammo alla Camera. Dove Ingrao è stato deputato per 10 legislature, e presidente, in quel crocevia, tra il ʼ76 ed il ʼ79, della storia d’Italia. Ingrao, il primo comunista a presiedere la Camera dei deputati, dopo che un altro comunista, aveva presieduto l’Assemblea costituente, che approvò la Costituzione, Umberto Terracini. Ingrao presiede il Parlamento delle maggioranze del “compromesso storico”, del “Governo di solidarietà nazionale” della Dc di Moro e del Pci di Berlinguer. Ma Ingrao presiede il Parlamento che, con l’assassinio di Moro da parte delle Br, negli anni di piombo, del terrorismo, segnò di fatto la fine della “prima Repubblica”.

Un padre della Regione dell’Umbria 

La lucidità e la lungimiranza

Pensando a Ingrao tornano quelle sue parole, quelle immagini che evocano stagioni, luoghi, volti, parole, che hanno segnato la nostra storia: quella dell’Italia e quella dell’Umbria. Perché Pietro è stato non solo un padre della patria, della Repubblica, un costruttore della democrazia del nostro paese, un capo carismatico della sinistra, un poeta della politica, ma è stato un padre della Regione dell’Umbria. Ingrao è stato eletto alla Camera dei deputati nella circoscrizione Umbra Sabina per oltre 30 anni, dalla quarta alla decima legislatura. Lo è stato come capolista del Pci. Non era il capolista “nominato” dalla Direzione nazionale. Uno che non veniva a “prendere” voti per “andarsene” in Parlamento, ma uno che dava all’Umbria, non solo il suo prestigio, la sua esperienza, la sua intelligenza, ma la grande passione politica, contribuendo a dare risposta ai problemi concreti.

L’Umbria era divenuta la sua terra, una sorta di “laboratorio politico” per costruire il futuro. Sperimentando qui le sue idee innovative, cercando di sciogliere qui i suoi “dubbi”. Pietro non è stato l’uomo ancorato alle certezze ideologiche. Pietro “voleva la luna”, come il titolo del suo ultimo libro. Te la faceva “toccare” nei suoi comizi. Che ti davano un orizzonte nuovo, ma che non si affidavano al “sol dell’avvenire”. Ti indicava una via nuova da aprire. Quella che lui definì la “terza via”. L’idea del “nuovo modello di sviluppo” da costruire in Italia.

Ingrao, senza “doppiezze”, non solo ti proponeva, ma ti interrogava, per verificare la bontà e la praticabilità della apertura di una via nuova, di un futuro diverso, sapere come la pensavano non solo gli operai ed i mezzadri comunisti, ma i socialisti, i democristiani. Quali fossero i rapporti con le forze sociali, coi sindacati, nella fabbriche, con le imprese. Con particolare attenzione ai rapporti coi cattolici, con la Chiesa. Un dirigente che parlava al cuore di un popolo, che indicava un orizzonte, ma che allo stesso tempo cercava di dare risposte alle domande dei cittadini, a cominciare da quelle del lavoro. Rivolgendosi sempre direttamente al suo popolo come agli avversari, diceva: “tu operaio”, come “tu Fanfani”.

L’Umbria nel libro “Volevo la Luna”

Ingrao racconta l’Umbria, nel suo libro “Volevo la Luna”, nel capitolo su “Municipi e Continenti”. «Io per primo vivevo una pesante contraddizione tra quel forte e fecondo radicamento nel territorio, nella regione, ed il dilagare straordinariamente plurimo della dimensione mondiale. I municipi e i continenti». E in questo capitolo Ingrao racconta i suoi incontri in Umbria, da capogruppo del Pci alla Camera, all’inizio degli anni ʼ60. L’incontro con Aldo Capitini a Perugia: «Avevo conosciuto Capitini nel tempo della mia cospirazione clandestina, quando era ancora in piedi il fascismo, anzi sembrava avesse vinto. Reincontrai Capitini in quella prima marcia verso Assisi, che da Perugia mosse nell’autunno del ʼ61. E la lunga, folta fila che dai colli di Perugia scese nella pianura umbra per risalire poi nelle balze che portavano alla Rocca di Assisi rappresentò un’emozione forte». Il corpo principale di quel corteo sterminato di sicuro era costituito da umbri “rossi”. Ma in cima alla Rocca di Assisi parlò alla folla emozionata assieme a Guido Piovene, Renato Guttuso, Ernesto Rossi, anche Arturo Carlo Jemolo, studioso di diritto ecclesiastico.

«E qui – continua Ingrao nel libro – torna la questione dell’articolazione e delle pluralità che segnavano quel mondo, teso ad una ribellione sociale: in roccaforti della industria come le Acciaierie di Terni, o nelle dense organizzazioni mezzadrili; agiva quella strana alleanza plurale tra il filosofo credente ed il mezzadro affamato di terra e di salario. Giungemmo, negli anni che seguirono, a portare l’Umbria in Parlamento, come grande questione nazionale (ʼ60-ʼ66); parteciparono anche il repubblicano La Malfa e tutta un’ala della Dc che nella regione era radicata e sorretta dalla Chiesa. Scoprivo quella trama di realtà comunale, in cui il partito cavalcava la condizione di oppositore e si faceva “forza di Governo.

E ancora: «Come avvenne che conobbi l’Umbria? Mi venne da Spoleto l’invito a parlare. Mi misi in viaggio. Era una giornata splendida, alle soglie della primavera. L’ora del comizio vicina al mezzogiorno. Il corso di Spoleto era gremito di persone. Parlai ad una piazza vicina alla uscita nord della città, con un buona dose di trepidazione. Ma avendo dinanzi un pubblico amico e caldo. Andammo a mangiare a Monteluco. E qui una parte incantevole del viaggio. Quella radura del monte mi avvinse. Vi tornai per le vacanze, con le figlie fanciulle e cominciammo a scoprire le prime bellezze dell’Umbria. Poi mi chiamarono ad Orvieto e vi tornai in seguito: come secondo un rito. Poi incontrai Terni. Avevo scoperto, sulla grande piazza d’ingresso alla città, un locale che aveva dei dolci squisiti, e io non resistevo alla gola. In quella piazza che poi mi divenne familiare per i comizi. Terni era una città di lunga storia civile e politica. Negli anni ’20 vi erano sorti i primi nuclei comunisti: compagni finiti nelle carceri o esuli in Francia e Russia o garibaldini in Spagna. A Terni c’era stato un impatto rovinoso con la guerra, subendo più di 100 bombardamenti. Nel ’56, a dirigere il Partito c’era un giovane compagno che divenne mio amico carissimo, Raffaele Rossi. Il mio rapporto si estese ad altre città: Orvieto, Spoleto, Assisi, Perugia, Gubbio, Castello, Spello, Norcia. Si avviò un’esperienza straordinaria, unica in Italia. L’elaborazione di un piano regionale di sviluppo. Mise radice quel nesso tra regionalismo e sviluppo, si determinò una convergenza forte tra comunisti, socialisti, democristiani, che contrastava col clima nazionale di divisione».

Luoghi indimenticabili

Anche quando parlavamo d’altro, i nostri colloqui si concludevano sempre con l’invito a salutare l’Umbria: l’aveva nel cuore. Ed ecco i nostri luoghi. La piazza del Popolo a Terni, nei venerdì di chiusura della campagna elettorale. Quelle indimenticabili calde serate di primavere diverse, fatte di tante vittorie ma anche di sconfitte, sempre di appassionate battaglie. Ingrao guidò i comunisti umbri da quando il Pci aveva il consenso di un cittadino su tre a quando ne conquistò uno su due. E a Perugia, la sala dei Notari era quella dei suoi ragionamenti. Quando lì parlò insieme a Togliatti al convegno delle “Regioni rosse”, per discutere i programmi per le Regioni che il Pci poi conquistò sin dalla istituzione nel ’70. La Regione si insediò proprio nel luglio ’70 in quella Sala dei Notari.

La sala dei dibattiti di partito, ma aperti. Come li volle all’undicesimo congresso. Battendosi perché anche il dissenso si manifestasse pubblicamente. In quel memorabile discorso al Palazzo dei Congressi di Roma, quando il popolo comunista si levò in piedi e la tribuna dei dirigenti restò di ghiaccio. Quei luoghi che non sono solo piazze e sale, coi mille e mille volti non solo di dirigenti, ma di operai e di mezzadri, di intellettuali e artigiani. Ma le strade e le fabbriche, le scuole e le sezioni. Quella strada che scende da Perugia e risale per la Rocca di Assisi, che con Ingrao facemmo sin dal settembre ’61, alla prima Marcia della Pace, con Capitini. A quando ci salimmo con Natta e Pajetta. Dopo Berlinguer. Prima di Napolitano. Alla prima Marcia Ingrao capeggiava la delegazione del Pci con Mario Alicata, portatori della bella lettera di adesione di Togliatti. Due intellettuali comunisti che lavorarono al film di Luchino Visconti, “Ossessione”.

Le battaglie aspre, ma anche l’affetto con Amendola

Ingrao partecipò attivamente alla Resistenza, con personalità come Amendola. Proprio con Amendola ed Alicata, nella costruzione del Pci e della democrazia italiana ebbe un confronto costante, con picchi di scontri durissimi. Ma quando il Pci decise la scelta del candidato alla presidenza della Camera fu Amendola che, rinunciando alla propria candidatura, indicò Ingrao. Quando Amendola morì, alla vigilia delle elezioni, io dovevo aprire il comizio, in piazza del Popolo, gremita come non mai. Sapevo che quel popolo attendeva le parole di Ingrao. Ma lui, arrivando sul palco, mi disse: «parla tu, perché io non so se ce la faccio: è morto Amendola». Tirai per le lunghe. Ma non potevo andare oltre. Quando gli passai la parola, la luce del vecchio lampione del Municipio illuminò il suo volto tirato, con muscoli facciali che tremavano di una commozione vera di chi, pur pensandola in modo diverso, aveva stima e rispetto, avendo lottato per uno stesso ideale, uno stesso obiettivo.

E così, quando scomparve Alicata, direttore del L’Unità dieci anni dopo di lui, fu Ingrao a porgergli l’estremo saluto, in quelle che si chiamavano “le orazioni funebri” del Pci. Tra loro, nel gruppo dirigente storico del Pci, si discuteva, si litigava anche quando il dissenso non era divenuto pubblico, ma si rispettavano, si stimavano e si riconoscevano profondamente.

Posti, orizzonti, dissidi

C’era un luogo nella capitale dove l’Umbria è stata al centro nei nostri colloqui per un decennio, dal 1983 al 1992: Montecitorio. Tanto in Aula che nell’intervallo tra una discussione e una votazione, in Transatlantico, Pietro voleva conoscere la situazione dell’Umbria e tante volte, oltre ai suggerimenti, poneva la sua firma autorevole in calce a una proposta di legge o una semplice interrogazione al Governo sui problemi dell’Umbria. Quei luoghi di quel lungo cammino erano anche le nostre case. A casa di Pietro, a Roma in via Balzani, per discutere i rapporti dopo l’undicesimo Congresso, quando Botteghe Oscure cercò di isolare non solo Ingrao, ma gli “ingraiani”, e Pietro concluse quel colloquio a due con queste parole: “mi raccomando: unità, unità, unità, lavorare, lavorare, lavorare».

Quelle parole che ripresi nella polemica che feci pubblicamente proprio con Ingrao nel ’90, con tanta sofferenza, quando nella prima guerra del Golfo, in Iraq, ci distinguemmo nel voto in Parlamento sulla partecipazione dell’Italia a quel conflitto. Esprimemmo le stesse posizioni nel gruppo parlamentare. Ma io votai secondo quello che decise la stragrande maggioranza del gruppo, evocando quelle sue parole «unità, unità, unità». In quell’occasione Ingrao votò in Parlamento in dissenso, non solo dal Governo, ma dal gruppo. Lì si consumò uno strappo. Scrissi un articolo su L’Unità che mi costò molto.

«Vedrai che quei regimi si dissolveranno»

Proprio quella rottura politica mi fa tornare ai quei luoghi che Pietro evoca. A cominciare dalle nostre case. A Piediluco, che Pietro amava, scrutando l’orizzonte oltre il lago. C’erano coloro che negli anni ’70-‘’80 sono stati segretari del Pci in Umbria, presidenti della Regione, parlamentari: da Marri a Gambuli, da Rasimelli a Galli, da Mandarini e Carnieri ad Acciacca. Torna un luogo, in questo caso la sezione Gramsci a Terni, dove nell’estate del ’68, quando i carri armati sovietici invasero Praga per soffocare la primavera di Dubcek, si svolse un’infuocata riunione del Cf (comitato federale, ndr) alla presenza di Ingrao. Molti autorevoli dirigenti del Pci in quell’occasione dissentirono della posizione della Direzione nazionale del Pci, che si pronunciò con nettezza e fermezza contro le scelte dell’Urss e a sostegno della primavera di Praga. Quando uscimmo e rimanemmo soli, per andare a Roma, Ingrao continuò a parlare dell’Est, pronunciando parole profetiche: «Questo è solo l’inizio della fine. Vedrai che quei regimi si dissolveranno». Questa frase l’ho portata dietro. Mi sono chiesto perché non dirla pubblicamente allora, vent’anni prima della caduta del “muro”, del dissolvimento dell’Urss e dei regimi del socialismo reale. Forse non c’erano le condizioni? Ma fu un errore fermarsi.

Così aiutava l’Umbria

Ingrao esercitava in quei luoghi il ruolo di dirigente politico, dandoci una mano. Da capogruppo del Pci a Montecitorio, poi da presidente della Camera, ci ha dato contributi sui problemi dell’Umbria, nei rapporti col Governo, come nel dialogo con le altre forze in Parlamento. Ricordo alcuni passaggi in anni diversi. Il ruolo fondamentale avuto nell’elaborazione e nell’approvazione da parte della Camera nel ’60 di quei 10 punti di Programma per l’Umbria, di grandi riforme istituzionali, come la costituzione della Regione, il superamento della mezzadria, la riforma agraria come quella della industria a cominciare dal ruolo di allora delle industrie di Stato, così come per il welfare, per la modernizzazione dell’Umbria, che portò alla costruzione del Piano umbro, poi alla Regione nel ’70.

Ricordo il sostegno che ci dette per impedire che il Governo bocciasse la riforma del turismo, che approvammo per primi in Italia. Quei giorni da presidente della Camera a Perugia e Terni. A Palazzo Cesaroni, in consiglio regionale, coi presidenti del Consiglio Gambuli, della Giunta Marri, prendere il telefono, parlare coi ministri, da Morlino a Donat Cattin, per impedire gli oltre mille licenziamenti alla Perugina: sostegno che ci dette sino a vertenza chiusa positivamente con la revoca di quei licenziamenti, avviando una nuova stagione che ha portato quella industria in mani diverse, ma stando in piedi. Ed alle Acciaierie di Terni. Parlare dentro la fabbrica, da presidente della Camera, per celebrare i 30 anni della Costituzione. Ingrao, scrupoloso, fece il discorso sulla Costituzione da presidente della Camera. Poi alzò lo sguardo su quelle tute blu, alle quali aveva parlato tante volte da deputato comunista fuori dai cancelli della fabbrica su una “ape”,  e disse loro: «Questa è la Carta che voi avete tenuto in mano, a testa alta, con la schiena dritta, nelle lunghe lotte per il lavoro, la libertà, i diritti, la democrazia. Tenetela sempre in mano. È la nostra forza, la vostra forza».

Autonomia e capacità di dialogo di un Maestro della politica e della vita

E come presidente della Camera seppe affrontare altri passaggi difficili in piena autonomia. Ne ricordo uno. Quello sul referendum sulla legge per l’aborto. Il vescovo Santo Quadri mi chiese di interloquire con Ingrao perché valutasse positivamente un suo gesto relativo a quel referendum su una questione così delicata, nel momento di divisione nel paese, con la Chiesa. Ne parlai a Ingrao, nel suo studio di presidente della Camera. Ingrao, in quel clima infuocato, conflittuale, accolse la richiesta del vescovo, la girò alla commissione della Camera perché affrontasse i temi posti, da quelli etici a quelli scientifici, col supporto degli scienziati. Ingrao seppe dialogare con tutti. Mi ha insegnato tante cose, fin da ragazzo. La politica come scelta di vita. Per cambiare il mondo. Per avere la luna. Per un’idea. Per dei valori, con passione. A lavorare, pensare, riflettere, a dare risposte ai dubbi, alle domande. A dialogare con tutti. A cercare l’unità per fare l’interesse generale.

Ricordo gli anni della solitudine, nei duri anni ’80. Quando Pietro si “chiuse” ad ascoltare musica e scrivere poesie, che poi pubblicò nel libro “il dubbio dei vincitori”. Quando decise di tornare a fare politica nel partito lasciò la presidenza della Camera, un insegnamento quanto mai utile oggi. La presidenza delle Istituzioni vanno ad un rappresentante delle minoranze. Che le esercita a garanzia di tutti. Come fece non solo Ingrao, ma la Iotti ed infine Napolitano. In stagioni diverse. E in quel ruolo di garanzia per tutti non si gioca alcun ruolo di parte. Quando si torna a fare l’uomo di parte, si lascia la presidenza delle Istituzioni.

Poi quella notte tesissima nella sala del Comitato centrale di Botteghe Oscure per organizzare la mozione per dire «no» allo scioglimento del Pci. Io decisi senza sentire Ingrao, che era in Spagna. Anche in quel crocevia ci incontrammo, sulle stesse posizioni. Poi ci dividemmo. Tra chi come me scelse la via di aderire al Pds, Ds, poi al Pd, e Ingrao che scelse altre strade politiche, rimanendo a sinistra. La politica unisce ma divide, anche. Così è stato con Ingrao. Ma anche quando ci dividemmo festeggiammo insieme. Fu cosi per i suoi 80 anni. Come presidente della Provincia, insieme al sindaco Ciaurro al presidente della Regione Carnieri festeggiammo insieme in una scuola con gli studenti, a cui Ingrao parlò della Costituzione, come fece con gli operai. Vennero amici di un lungo viaggio: da Lello Rossi a Beppe Vacca, a Mario Tronti. Festeggiamo nella città e nella regione che ama: quell’Umbria che mi ha chiesto sempre di salutare, con tanto affetto.

L’Umbria ti saluta con affetto

Oggi io non ho la facoltà di salutare Ingrao a nome dell’Umbria. Sono sicuro che posso dire: caro Pietro, l’Umbria che ti ha conosciuto, quella che ancora sente il calore delle tue parole, pronunciate con passione in piazze gremite di  masse di persone alle quali hai dato speranze e risposte, ti saluta con un affetto grandissimo.


Ringraziamo il direttore Giuseppe Castellini per averci concesso la pubblicazione di questa intervista lasciatagli qualche tempo prima di morire da Alberto Proventini, in saluto a Pietro Ingrao.

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